Prima di cominciare a parlare dell’iconografia di Vishnu-Krishna, è doveroso fare alcune precisazioni riguardo alla natura e alla funzione del simbolo, e più precisamente delineare le differenze che vi sono tra il simbolo come viene concepito nella psicologia o nella linguistica occidentali e il suo valore nell’ambito del Divino nella tradizione vaishnava. Nei Testi Sacri di questa tradizione non compaiono concetti traducibili nei termini di simbolo e di mito, almeno così come vengono intesi nella cultura occidentale, in quanto il loro carattere è dichiaratamente transeunte e dunque improprio e fuorviante per far comprendere i valori ontologici della teologia vaishnava. Vi è tuttavia, in questa tradizione, un’antica 'scienza' che con l’attuale terminologia potremmo definire simbolica ma, come cercherò brevemente di spiegare, essa procede in maniera inversa rispetto a quella della sua omologa occidentale. Il processo simbolico nell’ambito dell’antica cultura indiana può infatti definirsi “discendente”, in quanto la Realtà percepita dall’uomo attraverso il simbolo sacro proviene dalla sfera del Divino ed è per questo definita apaurusheya. Nelle scienze psicologiche il simbolo ha una valenza abbastanza ampia, infatti l’analisi dell’attività onirica, considerata appunto simbolo rivelatore dell’inconscio, va sicuramente oltre il mero, immediato significato dell’oggetto, per sfociare in valori, concetti e sentimenti più ampi, sottili e remoti. L’inno nazionale o una bandiera simboleggiano una nazionalità; possono evocare sentimenti di appartenenza ad una nazione in tutti coloro che con essa si identificano, ma una volta espletata tale funzione questi simboli, non contenendo un senso ulteriore, esauriscono gran parte della loro importanza. Certo, una bandiera o un inno nazionale non possono dirsi semplicemente un pezzo di stoffa o un brano musicale, perché in essi c’è un valore aggiunto, ma tale valore è proprio di una simbologia che si esprime sul piano transiente, in ambito adhibhautika, per cui rientra nella dimensione storica, temporanea, non in quella sacra, metafisica. Nella teologia vaishnava il simbolo è una realtà di per sé, un prolungamento della dialettica del Divino infatti, tutto ciò che non si può considerare direttamente connesso alla sfera spirituale, lo diventa perché partecipa ad un simbolo. La Murti ad esempio, benché rappresentata da elementi fisici, trascende la realtà fenomenica, e tutti gli ornamenti, gli oggetti ad Essa relativi (il flauto, la mazza o il disco, gli abiti, la tiara o la piuma di pavone) partecipano alla Sua sacralità. In questo senso il simbolo è esso stesso una ierofania, in quanto rivela la realtà sacra, ontologica, suprema; è un riflesso (praticchaya) del Divino. Nel libro Jaiva-dharma un discepolo pone un’importante domanda al proprio guru:
'Se quel che è trascendente e quel che è mondano possiedono nature così diverse tra loro, come può allora uno dei due termini essere usato come esempio (udaharana) per l’altro?'
La risposta si trova nella teoria della trasformazione (vikara) di Bhaktivinoda Thakura, nella quale si asserisce che le forme-immagini del mondo fenomenico sono modificazioni imperfette, dette appunto vikara, di quelle eterne e perfette del mondo spirituale. Bhaktivinoda Thakura scrive:
[...] ho già detto che soltanto cit (la sostanza spirituale) possiede vera realtà; la materia è il suo vikara o imperfetta modificazione. Benché un vikara sia differente dalla sua 'pura' controparte, vi sono molte similitudini tra la cosa 'pura' e il suo vikara. Per esempio, il ghiaccio è un vikara dell’acqua e, malgrado esso differisca dall’acqua, possiede comunque molte qualità in comune con essa: freschezza [...]. Il variato mondo di maya è il riflesso distorto del mondo spirituale in tutta la sua varietà (cit-jagat) [...]. Così le diversità tra il mondo cit e il mondo di maya appaiono simili, secondo la prospettiva di chi possiede una visione grossolana.
Gli shastra vaishnava affermano che la qualità della fede religiosa, in un dinamico equilibrio con la purezza di cuore e di mente, 'trasforma' gli oggetti in qualcosa di diverso da quel che sembrano nell’esperienza profana; e questi oggetti, attraverso un processo 'simbolico', assumendo il ruolo di simboli sacri, ovvero “indicatori” (nidarshana) di una realtà spirituale, trascendono i loro limiti materiali (marmo, legno, stoffa, metallo, suono, pensiero ed altro), cessando di essere frammenti isolati, grossolani o sottili, a seconda che siano costituiti di elementi fisici o psichici, per integrarsi in un sistema o, meglio ancora, per rappresentare la sfera del sacro e rivelarne la dimensione. Quel che vale per la Murti vale anche per il Nama (Nome divino), per i Lila (giochi divini), per il Dhama (luogo santificato da una manifestazione del Signore), per gli Shastra (Sacre Scritture); tutte queste rappresentazioni del Divino possono essere percepite attraverso il processo simbolico e contemporaneamente ciascuna di esse non solo rappresenta la realtà suprema, tattva, ma è tattva di per sé. Il simbolo può essere compreso a vari livelli: fisico-letterale, psichico-concettuale immaginativo o spirituale-rasika, a seconda della consapevolezza e delle capacità proprie dell’individuo. Poiché molto raramente chi intraprende un cammino spirituale è libero dal condizionamento degli opposti (dvandva), tenderà a percepire la Murti, il Nama, gli Shastra e via dicendo nel modo fisico-letterale, non avendo quell’equilibrio sufficiente che fornisce la chiave di lettura per tutti i livelli. Questa iniziale percezione del Divino è comunque apprezzata da chi vive una coscienza elevata; il sadhaka evoluto infatti non svaluterà le percezioni immediate, sensoriali, perché consapevole che nella fase propria del kanishtha esse sono necessarie per potersi elevare e procedere oltre sul sentiero della realizzazione del sé. L’oggetto 'simbolo sacro' ha valenza ontologica nel Vaishnavismo e, pur apparendo contestualizzato entro il paradigma spazio-temporale, a seconda della qualità della fede religiosa e delle intrinseche capacità e qualificazioni (adhikara) del ricercatore, può rivelare ben altri orizzonti. A differenza dell’asta per il salto in alto, che porta l’atleta oltre l’ostacolo ma subito dopo viene da questi abbandonata in quanto ha esaurito la sua funzione, il simbolo sacro proietta il devoto vaishnava oltre la dimensione fenomenica, sul piano della Realtà e, al contrario del simbolo profano, dopo aver espletato questo compito non si dissolve né si svaluta e, mantenendo immutata la propria funzione, continua ad evocare nel sadhaka emozioni e sentimenti spirituali (rasa). Il simbolo vaishnava, la cui valenza ulteriore rispetto alla mera percezione fisica (pratyaksha) rimane inaccessibile a coloro che non possiedono la sufficiente qualificazione spirituale, serve a concepire, a visualizzare (darshana) e a raggiungere livelli di consapevolezza più avanzati, ad esperire il desiderio spontaneo (raga) di rapporto diretto col Divino, fino allo scambio di sentimenti amorosi (rasika) con Dio, Vishnu-Krishna. In India tutti conoscono e amano Krishna. La Sua storia divina viene narrata in molti antichi Testi Sacri, come gli autorevoli Bhagavata-purana e Hari Vamsha; ma è il celeberrimo poema epico Mahabharata quello che maggiormente contribuisce alla Sua diffusa popolarità. La vita di Krishna ha ispirato ogni sorta di genio: artisti, poeti, mistici, teologi e filosofi hanno tratto ispirazione per le loro opere dal Suo carattere e dalle Sue gesta. La Sua figura ha dunque profondamente influenzato la cultura socio-religiosa indiana. Krishna è il Bambino divino ma anche il divino Amante, il Filosofo eccelso e il supremo Yogi, l’Anima cosmica e l’Archetipo del guru, l’Amico e il Protettore dei Suoi devoti, il Dio dei deva, il Creatore e Glorioso Signore dell’universo. Vediamo dunque di conoscere Krishna più da vicino, cominciando dal Suo nome che significa ‘infinitamente affascinante'. Egli dice di Sé nella Bhagavad-gita: 'Sono l’origine di tutto. Tutto emana da Me. Così sapendo, i saggi Mi adorano con devozione totale. Di seguito leggiamo:
'Sono nel cuore di ogni essere e da Me vengono il ricordo, la conoscenza e l’oblìo. Il fine di tutti i Veda è quello di conoscerMi. In verità Io sono Colui che ha composto il Vedanta e Colui che conosce i Veda'.
Krishna afferma inoltre:
'Poiché sono trascendente, al di là del fallibile e dell’infallibile, e poiché sono il più grande, vengo celebrato nel mondo e nei Veda come la Persona suprema'.
Nella tradizione bhagavata, Krishna viene descritto come manifestazione plenaria di Dio (Purna-Avatara) e come Dio stesso, Originario Essere Supremo (Adi-Purusham) da Cui tutto promana. Secondo la Bhagavad-gita, oltre l’universo manifesto o sensibile, costituito da innumerevoli sistemi planetari, si situa la realtà suprema non manifesta, eccelsa dimora (dhaman) di Krishna. Mentre il mondo materiale (maya-jagat) è perpetuamente soggetto alle periodiche manifestazioni e conseguenti dissoluzioni o riassorbimenti, quello spirituale (cit-jagat) permane eternamente. Il regno di Krishna è infinito e consta di innumerevoli pianeti denominati Vaikuntha, per il fatto che offrono a chi vi risiede una vita libera dalle sofferenze imposte dal samsara. La Brahma-samhita descrive il più elevato di questi mondi, Goloka Vrindavana, come la Dimora personale di Krishna. Là, gli alberi dei desideri (kalpavriksha) sono in grado di soddisfare le aspirazioni più intime dei devoti e fanno da ornamento a meravigliosi palazzi edificati con pietre filosofali (cintamani); le mucche surabhi, dal latte abbondante, vengono condotte al pascolo da pastorelli su prati sempre in fiore, mentre moltitudini di anime liberate giocano felicemente con Krishna, Causa di tutte le cause. La Brahma-samhita celebra nei particolari la bellezza e la grazia infinite di Krishna: 'Il glorioso Signore ha occhi simili al loto in fiore e lunghi capelli neri ornati con una piuma di pavone; la Sua carnagione ha riflessi simili al blu delle fresche nuvole gravide di pioggia; innamora schiere di cupidi (kandarpa); indossa una fresca ghirlanda di fragranti fiori di campo e, mentre suona il flauto, la Sua affascinante forma è sinuosamente caratterizzata in tre punti; è ornato di gemme pure ed eternamente gioca con un numero infinito di anime liberate'.
'Se quel che è trascendente e quel che è mondano possiedono nature così diverse tra loro, come può allora uno dei due termini essere usato come esempio (udaharana) per l’altro?'
La risposta si trova nella teoria della trasformazione (vikara) di Bhaktivinoda Thakura, nella quale si asserisce che le forme-immagini del mondo fenomenico sono modificazioni imperfette, dette appunto vikara, di quelle eterne e perfette del mondo spirituale. Bhaktivinoda Thakura scrive:
[...] ho già detto che soltanto cit (la sostanza spirituale) possiede vera realtà; la materia è il suo vikara o imperfetta modificazione. Benché un vikara sia differente dalla sua 'pura' controparte, vi sono molte similitudini tra la cosa 'pura' e il suo vikara. Per esempio, il ghiaccio è un vikara dell’acqua e, malgrado esso differisca dall’acqua, possiede comunque molte qualità in comune con essa: freschezza [...]. Il variato mondo di maya è il riflesso distorto del mondo spirituale in tutta la sua varietà (cit-jagat) [...]. Così le diversità tra il mondo cit e il mondo di maya appaiono simili, secondo la prospettiva di chi possiede una visione grossolana.
Gli shastra vaishnava affermano che la qualità della fede religiosa, in un dinamico equilibrio con la purezza di cuore e di mente, 'trasforma' gli oggetti in qualcosa di diverso da quel che sembrano nell’esperienza profana; e questi oggetti, attraverso un processo 'simbolico', assumendo il ruolo di simboli sacri, ovvero “indicatori” (nidarshana) di una realtà spirituale, trascendono i loro limiti materiali (marmo, legno, stoffa, metallo, suono, pensiero ed altro), cessando di essere frammenti isolati, grossolani o sottili, a seconda che siano costituiti di elementi fisici o psichici, per integrarsi in un sistema o, meglio ancora, per rappresentare la sfera del sacro e rivelarne la dimensione. Quel che vale per la Murti vale anche per il Nama (Nome divino), per i Lila (giochi divini), per il Dhama (luogo santificato da una manifestazione del Signore), per gli Shastra (Sacre Scritture); tutte queste rappresentazioni del Divino possono essere percepite attraverso il processo simbolico e contemporaneamente ciascuna di esse non solo rappresenta la realtà suprema, tattva, ma è tattva di per sé. Il simbolo può essere compreso a vari livelli: fisico-letterale, psichico-concettuale immaginativo o spirituale-rasika, a seconda della consapevolezza e delle capacità proprie dell’individuo. Poiché molto raramente chi intraprende un cammino spirituale è libero dal condizionamento degli opposti (dvandva), tenderà a percepire la Murti, il Nama, gli Shastra e via dicendo nel modo fisico-letterale, non avendo quell’equilibrio sufficiente che fornisce la chiave di lettura per tutti i livelli. Questa iniziale percezione del Divino è comunque apprezzata da chi vive una coscienza elevata; il sadhaka evoluto infatti non svaluterà le percezioni immediate, sensoriali, perché consapevole che nella fase propria del kanishtha esse sono necessarie per potersi elevare e procedere oltre sul sentiero della realizzazione del sé. L’oggetto 'simbolo sacro' ha valenza ontologica nel Vaishnavismo e, pur apparendo contestualizzato entro il paradigma spazio-temporale, a seconda della qualità della fede religiosa e delle intrinseche capacità e qualificazioni (adhikara) del ricercatore, può rivelare ben altri orizzonti. A differenza dell’asta per il salto in alto, che porta l’atleta oltre l’ostacolo ma subito dopo viene da questi abbandonata in quanto ha esaurito la sua funzione, il simbolo sacro proietta il devoto vaishnava oltre la dimensione fenomenica, sul piano della Realtà e, al contrario del simbolo profano, dopo aver espletato questo compito non si dissolve né si svaluta e, mantenendo immutata la propria funzione, continua ad evocare nel sadhaka emozioni e sentimenti spirituali (rasa). Il simbolo vaishnava, la cui valenza ulteriore rispetto alla mera percezione fisica (pratyaksha) rimane inaccessibile a coloro che non possiedono la sufficiente qualificazione spirituale, serve a concepire, a visualizzare (darshana) e a raggiungere livelli di consapevolezza più avanzati, ad esperire il desiderio spontaneo (raga) di rapporto diretto col Divino, fino allo scambio di sentimenti amorosi (rasika) con Dio, Vishnu-Krishna. In India tutti conoscono e amano Krishna. La Sua storia divina viene narrata in molti antichi Testi Sacri, come gli autorevoli Bhagavata-purana e Hari Vamsha; ma è il celeberrimo poema epico Mahabharata quello che maggiormente contribuisce alla Sua diffusa popolarità. La vita di Krishna ha ispirato ogni sorta di genio: artisti, poeti, mistici, teologi e filosofi hanno tratto ispirazione per le loro opere dal Suo carattere e dalle Sue gesta. La Sua figura ha dunque profondamente influenzato la cultura socio-religiosa indiana. Krishna è il Bambino divino ma anche il divino Amante, il Filosofo eccelso e il supremo Yogi, l’Anima cosmica e l’Archetipo del guru, l’Amico e il Protettore dei Suoi devoti, il Dio dei deva, il Creatore e Glorioso Signore dell’universo. Vediamo dunque di conoscere Krishna più da vicino, cominciando dal Suo nome che significa ‘infinitamente affascinante'. Egli dice di Sé nella Bhagavad-gita: 'Sono l’origine di tutto. Tutto emana da Me. Così sapendo, i saggi Mi adorano con devozione totale. Di seguito leggiamo:
'Sono nel cuore di ogni essere e da Me vengono il ricordo, la conoscenza e l’oblìo. Il fine di tutti i Veda è quello di conoscerMi. In verità Io sono Colui che ha composto il Vedanta e Colui che conosce i Veda'.
Krishna afferma inoltre:
'Poiché sono trascendente, al di là del fallibile e dell’infallibile, e poiché sono il più grande, vengo celebrato nel mondo e nei Veda come la Persona suprema'.
Nella tradizione bhagavata, Krishna viene descritto come manifestazione plenaria di Dio (Purna-Avatara) e come Dio stesso, Originario Essere Supremo (Adi-Purusham) da Cui tutto promana. Secondo la Bhagavad-gita, oltre l’universo manifesto o sensibile, costituito da innumerevoli sistemi planetari, si situa la realtà suprema non manifesta, eccelsa dimora (dhaman) di Krishna. Mentre il mondo materiale (maya-jagat) è perpetuamente soggetto alle periodiche manifestazioni e conseguenti dissoluzioni o riassorbimenti, quello spirituale (cit-jagat) permane eternamente. Il regno di Krishna è infinito e consta di innumerevoli pianeti denominati Vaikuntha, per il fatto che offrono a chi vi risiede una vita libera dalle sofferenze imposte dal samsara. La Brahma-samhita descrive il più elevato di questi mondi, Goloka Vrindavana, come la Dimora personale di Krishna. Là, gli alberi dei desideri (kalpavriksha) sono in grado di soddisfare le aspirazioni più intime dei devoti e fanno da ornamento a meravigliosi palazzi edificati con pietre filosofali (cintamani); le mucche surabhi, dal latte abbondante, vengono condotte al pascolo da pastorelli su prati sempre in fiore, mentre moltitudini di anime liberate giocano felicemente con Krishna, Causa di tutte le cause. La Brahma-samhita celebra nei particolari la bellezza e la grazia infinite di Krishna: 'Il glorioso Signore ha occhi simili al loto in fiore e lunghi capelli neri ornati con una piuma di pavone; la Sua carnagione ha riflessi simili al blu delle fresche nuvole gravide di pioggia; innamora schiere di cupidi (kandarpa); indossa una fresca ghirlanda di fragranti fiori di campo e, mentre suona il flauto, la Sua affascinante forma è sinuosamente caratterizzata in tre punti; è ornato di gemme pure ed eternamente gioca con un numero infinito di anime liberate'.
Nessun commento:
Posta un commento