17 marzo 2009

'La Murti' di Shriman Matsyavatara Prabhu.

Murti è un termine sanscrito che indica una manifestazione fisica, dimensionale e visiva di una Divinità. Nella realtà dell'esperienza quotidiana noi possiamo avere conoscenza solamente delle cose che cadono sotto la nostra percezione sensoriale, che possiedono cioè una forma (murta), ecco perché è più facile, per chi vive in questa dimensione, avere un approccio al Divino anche attraverso la Murti. Prima di parlare dell'iconografia di Vishnu, Krishna, o di altre Divinità è doveroso fare alcune precisazioni riguardo alla natura e alla funzione del simbolo, e più precisamente delineare le differenze che vi sono tra il simbolo come viene concepito nella psicologia o nella linguistica occidentali e il suo valore nell’ambito del Divino nella tradizione vaishnava. Nelle scienze psicologiche il simbolo ha una valenza abbastanza ampia, infatti l’analisi dell’attività onirica, considerata appunto simbolo rivelatore dell’inconscio, va sicuramente oltre il mero, immediato significato dell'oggetto, per sfociare in valori, concetti e sentimenti più ampi, sottili e remoti. L'inno nazionale o una bandiera simboleggiano una nazionalità; possono evocare sentimenti di appartenenza ad una nazione in tutti coloro che con essa si identificano, ma una volta espletata tale funzione questi simboli, non contenendo un senso ulteriore, esauriscono gran parte della loro importanzae funzione. Certo, una bandiera o un inno nazionale non possono dirsi semplicemente un pezzo di stoffa o un brano musicale, perché in essi c’è un valore aggiunto, ma tale valore è proprio di una simbologia che si esprime sul piano transiente, in ambito fenomenico o adhibhautika, per cui rientra nella dimensione storica, temporanea, non in quella sacra, metafisica, metastorica. Nella teologia vaishnava il simbolo è una realtà di per sé, un prolungamento della dialettica del Divino infatti, tutto ciò che non si può considerare direttamente connesso alla sfera spirituale, lo diventa perché partecipa ad un simbolo. La Murti, benché rappresentata da elementi fisici, trascende la realtà fenomenica, e tutti gli ornamenti, gli oggetti ad Essa relativi (il flauto, la mazza o il disco, gli abiti, la tiara o la piuma di pavone) partecipano alla Sua sacralità. In questo senso il simbolo è esso stesso una ierofania, in quanto rivela la realtà sacra, ontologica, suprema; è un riflesso (praticchaya) del Divino. Per questo motivo, proprio perché la Murti non si limita ad una certa conglomerazione di elementi, ma rappresenta qualcosa che va ben oltre, la Sua adorazione non può andare sotto il nome di idolatria. Come spiega Bhaktivedanta Svami Prabhupada, "Le Scritture vediche precisano che il culto di Dio può essere saguna (con attributi) o nirguna (senza attributi), ovvero rivolto alla manifestazione personalistica o impersonalistica di Dio. L'adorazione delle Murti nel tempio è saguna perché il Signore vi è rappresentato con l'aiuto di elementi materiali. Ma la forma del Signore non è materiale anche se rappresentata nel legno, nella pietra o nei quadri ad olio. La natura del Signore Supremo rimane assoluta. Facciamo un esempio un po' spiccio ma appropriato: una lettera impostata in una delle buche postali che sono collocate sulla via pubblica giungerà a destinazione senza difficoltà; la stessa cosa non accadrà ad una lettera gettata in una qualsiasi fessura o in una imitazione di buca da lettere non riconosciuta dall'ufficio postale. Così Dio, il Signore Supremo ha la Sua rappresentazione autorizzata nella Murti o arca-vigraha che è una Sua manifestazione; attraverso la Sua forma arca, Dio, onnipresente e onnipotente, può accettare le offerte del Suo devoto e facilitare così il servizio che Gli dedicano le anime incarnate”. Gli Shastra Vaishnava affermano che la qualità della fede religiosa, in un dinamico equilibrio con la purezza di cuore e di mente(1), “trasforma” gli oggetti in qualcosa di diverso da quel che sembrano nell’esperienza profana; e questi oggetti, attraverso un processo “simbolico”, assumendo il ruolo di simboli sacri, ovvero “indicatori” (nidarshana) di una realtà spirituale, trascendono i loro limiti materiali (marmo, legno, stoffa, metallo, suono, pensiero ed altro), cessando di essere frammenti isolati, grossolani o sottili, a seconda che siano costituiti di elementi fisici o psichici, per integrarsi in un sistema o, meglio ancora, per rappresentare la sfera del sacro e rivelarne la dimensione. Quel che vale per la Murti vale anche per il Nama (Nome divino), per i Lila (giochi divini), per il Dhama (luogo santificato da una manifestazione del Signore), per gli Shastra (Sacre Scritture); tutte queste rappresentazioni del Divino possono essere percepite attraverso il processo simbolico e contemporaneamente ciascuna di esse non solo rappresenta la realtà suprema, tattva, ma è tattva di per sé. Il simbolo può essere compreso a vari livelli: fisico-letterale(2), psichico-concettuale-immaginativo(3) o spirituale-rasika(4), a seconda della consapevolezza e delle capacità proprie dell'individuo. Poichè molto raramente chi intraprende un cammino spirituale è libero dal condizionamento degli opposti (dvandva)(5), tenderà a percepire la Murti, il Nama, gli Shastra e via dicendo nel modo fisico-letterale, non avendo quell'equilibrio sufficiente che fornisce la chiave di lettura per tutti i livelli. Questa iniziale percezione del Divino è comunque apprezzata da chi vive una coscienza elevata; il sadhaka evoluto infatti non svaluterà le percezioni immediate, sensoriali, perché consapevole che nella fase propria del kanishtha esse sono necessarie per potersi elevare e procedere oltre sul sentiero della realizzazione del sé. L’oggetto “simbolo sacro” ha valenza ontologica nel Vaishnavismo e, pur apparendo contestualizzato entro il paradigma spazio-temporale, a seconda della qualità della fede religiosa e delle intrinseche capacità e qualificazioni (adhikara) del ricercatore, può rivelare ben altri orizzonti. A differenza dell’asta per il salto in alto, che porta l’atleta oltre l’ostacolo ma subito dopo viene da questi abbandonata in quanto ha esaurito la sua funzione, il simbolo sacro proietta il devoto vaishnava oltre la dimensione fenomenica, sul piano della Realtà e, al contrario del simbolo profano, dopo aver espletato questo compito non si dissolve né si svaluta e, mantenendo immutata la propria funzione, continua ad evocare nel sadhaka emozioni e sentimenti spirituali (rasa).

(1) La fede autentica (shraddha), ingrediente primario per esperire il Divino, favorisce anche il processo di purificazione della mente e del cuore, ma è altrettanto vero che senza la purezza di cuore e di mente non si può giungere ad una fede salda e genuina.
(2) In questo caso il ricercatore spirituale (sadhaka) non riuscirà a percepire la Murti oltre l'aspetto di statua sacra; considererà gli Shastra come libri autorevoli, ma non riuscirà a superarne il senso letterale; per lui il Santo Nome sarà poco più di un suono e via dicendo.
(3) In questa fase il sadhaka non si limita più all’impatto pratyaksha con la realtà: lo ha superato per cominciare un cammino simbolico, interiore; riesce a concettualizzare, ad avere intuizioni e realizzazioni, a fare delle associazioni, comincia ad ampliare la propria cornice conoscitiva e a cogliere aspetti più sottili, dinamici, trascendenti della sfera del sensibile.
(4)‘Nell'ambito del rasa’. Rasa è tutto ciò che possiede gusto e sentimento; qui si allude al puro ambito spirituale. A questo stadio il sadhaka, ormai evoluto al massimo grado, ottiene la definitiva, nitida percezione della realtà assoluta: si ha dunque la completa attivazione dei sentimenti spirituali, che fluiscono continuamente e reciprocamente tra devoto e Divinità.
(5) Questo termine sanscrito designa la “coppia di opposti”, che possono essere di natura esteriore o interiore, ad esempio caldo-freddo oppure gioia-dolore. Rappresentano la dualità che caratterizza il mondo delle condizioni e il sadhaka, con l’aiuto del guru e della disciplina spirituale (sadhana), deve comprenderli a fondo ed armonizzarli per giungere al livello di nirdvandva, in cui non si è più soggetti alla continua, dolorosa oscillazione tra poli opposti. Cfr. Bhagavad-gita II.14-15; II.45; V.3 e VII.27-28.

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