29 marzo 2009

'Genitori e Figli' di Shriman Matsyavatara Prabhu.

Nei periodi di sconvolgimento sociale come quello che stiamo vivendo è doveroso chiedersi se e come possano sopravvivere rapporti familiari delicati ed essenziali come quelli tra genitori e figli, senza che si smarriscano il senso e lo scopo ultimo di questa relazione basilare per ogni individuo, per la nostra crescita psicologica ed esistenziale. Genitori e figli, oggi, con una struttura familiare sempre meno imperniata su valori morali e spirituali, rischiano di naufragare in una specie di "terra di nessuno" dai confini incerti, dove sentimenti, ruoli e comportamenti devono essere spesso reinventati e sperimentati a prezzo di gravissimi danni umani ed economici. Nell'attuale momento socio-storico l'influenza della cultura atea, materialista, ha progressivamente distolto l'attenzione della grande maggioranza della gente da un percorso di sviluppo interiore, accreditando al suo posto pseudo-valori che hanno profondamente trasformato e deformato il concetto di famiglia. La tecnologia ha dato un poderoso impulso alla scienza nei campi della ricerca genetica, della bioingegneria, dell'inseminazione artificiale, ma si è altresì sviluppata una generalizzata degenerazione etico-comportamentale, con il boom ad esempio degli aborti e dei divorzi. Tutto ha ovviamente contribuito a stravolgere il tradizionale rapporto tra marito e moglie e tra genitori e figli, al punto da dover riscrivere il diritto di famiglia per tener conto di tutte le odierne alienità. Secondo recenti statistiche del CENSIS i giovani italiani restano in casa più a lungo, tendono a cercare lavoro sul posto e confidano nella famiglia per trovarlo, passano il tempo con gli amici, si dedicano allo sport, non hanno grandi ambizioni nè alti ideali. A prima vista sembrerebbe un quadro idilliaco ma non è così. Basti ad esempio pensare all'esercito di ragazze madri, molte delle quali poco più che bambine, o al sistematico massacro di figli non ancora nati, vittime inermi di un crimine legalizzato di procreatori irresponsabili che diventano abortisti senza scrupoli, oppure alle migliaia di vittime della droga, o a tutti quei giovani che fanno uso di alcool e vanno ad infoltire le fila degli oltre 40.000 morti l'anno. Altro segno del disagio é la disperazione dei figli di coppie divorziate o di quelli che pagano pesantemente il conto della violenza familiare sempre più diffusa. In un mondo che pare impazzito, le prime vittime sono proprio i bambini. Uno scioccante studio rivela che un bimbo su quattro è, più o meno seriamente, malato di mente. Ad un’attenta lettura di queste statistiche non sfugge certo la grande carenza di valori etici e spirituali, nè il fatto che la famiglia abbia smarrito il fine trascendente dell'esistenza. Per lo più oggi la religione è ridotta a mera formalità e Dio viene chiamato in causa solo perchè garantisca quel benessere materiale che pare essere diventato l’unico scopo dell’esistenza. Genitori e figli, e anche moglie e marito, hanno spesso interessi privati che contrastano con lo spirito unitario della famiglia, per cui non raramente convivono solo per convenienza in una relazione svuotata di ogni significato sacro. Quando uno dei due coniugi, infatti, non ha più il suo tornaconto egoistico, mostra rapidamente l'assenza di spirito di sacrificio rompendo senza indugi e senza rimorsi il legame familiare. Molti percepiscono la famiglia non come entità sacra, piuttosto come società a responsabilità limitata, dalla quale si esce quando si vuole purchè ci si accordi economicamente. Il tradimento e il divorzio diventano pratica comune e, nel delirio dell'illusione, la sfortuna viene scambiata per fortuna. I genitori lavorano entrambi per provvedere ai sempre crescenti pseudo-bisogni imposti dalla cultura consumistica e i giovani risentono negativamente della quasi totale mancanza di educazione e di esempio da parte dei genitori. L'educazione dei figli viene di fatto delegata ad estranei o ai mass media. La famiglia, come descritta dalle sacre scritture vediche, costituisce una delle quattro tappe del progresso umano verso la liberazione dai condizionamenti, finalizzata a dare affetto, protezione ed educazione ai suoi componenti. La famiglia tradizionale era forte perchè poggiava le fondamenta sui princìpi religiosi. Era costituita dai nonni, dai genitori, dai fratelli, dagli zii, dai cugini. Le responsabilità e i ruoli erano ben definiti e venivano appresi sin dall'infanzia. Con essi si imparavano il rispetto, la reverenza e l'amore per Dio, per i familiari e per tutti gli esseri viventi, umani e non. Nella famiglia il ruolo dei genitori è decisivo per il progresso dei figli. Il modello e l'efficacia del loro insegnamento deriva essenzialmente dall'esempio. Solo se essi sono eticamente e spiritualmente evoluti, al tempo stesso austeri e amorevoli, leali con tutti, giusti e generosi, potranno ispirare nei figli un comportamento analogo, e riceveranno in cambio rispetto e amore. Nella civiltà vedica i giovani frequentavano fino all'età di 25 anni la scuola del guru, dove venivano istruiti anche sulle responsabilità familiari. Essi non potevano sposarsi prima di aver ricevuto dal Maestro il riconoscimento di maturità spirituale, indispensabile per entrare con successo nella vita di famiglia. Era decisamente sconsigliato assumersi il ruolo di genitore o di marito se non si era capaci di facilitare il progresso spirituale dei propri figli, della moglie e degli anziani della famiglia. Nella famiglia vedica il padre é il maestro spirituale naturale della famiglia (shiksha guru), insegna con l'esempio, provvede a tutte le necessità e protegge i familiari dai pericoli della vita, educa i figli e li aiuta nella scelta del maestro spirituale che darà loro l'iniziazione (diksha guru) e che li guiderà gradualmente verso la riscoperta della loro natura profonda e della loro relazione con Dio. La donna viene educata con cura fino dalla più tenera età affinchè sviluppi le virtù indispensabili al successo nella vita familiare: la castità, la collaborazione amorevole con il marito e la cura dei figli e della casa. La moglie è l'assistente più intima del marito e madre generosa e amorevole: come tale è amata e rispettata da tutti i membri della famiglia. Il marito, a sua volta, è educato a trattare la moglie con grande rispetto e a provvedere ai suoi bisogni secondo le proprie possibilità, ma soprattutto ad aiutarla, attraverso il proprio esempio, nell’avanzamento spirituale. Nei Veda la moglie è descritta come la metà del corpo del marito ed ella sa che non può raggiungere la liberazione (moksha) senza aver compiuto i propri doveri verso di lui e verso la famiglia. Il marito, a sua volta, è cosciente che non può liberarsi se non avrà salvato la propria famiglia, che da lui dipende. Il lavoro, la preghiera, il cibo, i matrimoni, le nascite e le morti, tutta la vita familiare viene vista come una serie di attività tese alla purificazione e all'avanzamento spirituale per mezzo del servizio di amore e devozione a Dio (bhakti-yoga) fino a raggiungere la perfezione. In questo contesto la casa diventa come un tempio, pervasa di spiritualità: è un monumento alla devozione in cui si gioisce del vivere servendo e adorando il Creatore; vi si conduce un'esistenza pura, semplice e santa. L'educazione dei figli, affinchè da adulti siano capaci di impostare con successo la loro vita familiare, diventa il principale scopo dei genitori. Niente è lasciato al caso: la nascita e la crescita dei figli è regolata da pratiche vediche dette samskara. In lingua sanscrita figlio si dice putra, che significa ‘colui che salva il padre dalle conseguenze del peccato’ (letteralmente: dall'inferno detto pu). Il padre che investe le sue energie nell'educazione spirituale dei figli guadagna meriti pari alla somma di quelli ottenuti da chi avrà compiuto ogni specie di sacrificio (yajna), penitenza (tapas), pellegrinaggio (parikrama), donazione di ricchezze (dhana) e studio dei Veda (svadhyaya). Canakya Pandita, un grande saggio vissuto in India circa 2.300 anni fa, nel suo celebre Niti-shastra insegna che i figli vanno scusati con dolcezza fino all'età di cinque anni, educati con cura e fermezza fino a quindici, poi trattati come amici per il resto della vita. Rimproverare duramente i figli in età superiore ai quindici anni, qualora non abbiano ancora ricevuto un'adeguata educazione e sviluppato sufficiente stima e rispetto nei confronti dei genitori, significa correre il rischio di trasformarseli in nemici. Il saggio Canakya dice che avere figli che non siano nè devoti di Dio, nè studenti della scienza sacra, è come avere occhi che non vedono, inutili fardelli che procurano solo dolore. Oggi le condizioni sociali sono talmente peggiorate che tante persone hanno una vera e propria paura di fondare una famiglia; non si fidano e temono di crearsi un futuro tempestoso; prevedono tradimenti e malversazioni da parte dei familiari, ricatti e cause legali, insomma una vita d'inferno. Tuttavia, pur tenendo conto delle enormi ed oggettive difficoltà che oggi ostacolano chi si accinge ad entrare nella vita di famiglia, chi non fosse ancora pronto a rinunciare al desiderio di diventare marito o moglie, padre o madre, sappia che, dal punto di vista sociale, non è mai stata disponibile un'alternativa positiva alla famiglia e che tutte le invenzioni umane in tal senso si sono sempre rivelate dolorosi fallimenti. Se la famiglia così come si presenta oggi non sembra affidabile, se marito e moglie soffrono di mancanza di fiducia reciproca, se genitori e figli si guardano con sospetto, che fare? Come umani soffriamo di troppi limiti, meglio implorare l'aiuto del Signore e percorrere un cammino sperimentato di progresso spirituale per la destrutturazione dei condizionamenti inconsci, l’armonizzazione della personalità e l’elevazione della coscienza, che consenta una migliore relazione con se stessi e con gli altri e la percezione e visualizzazione di livelli superiori di realtà. Con la coscienza vivificata diventa possibile organizzare la vita familiare e sociale senza ansietà, strutturando gradualmente le proprie abitudini e relazioni umane sul modello e sui valori indicati dai saggi di tutti i tempi.

23 marzo 2009

'Dio, l’universo e le creature' di Shriman Matsyavatara Prabhu.

L’uomo moderno è confuso; ma a nessun singolo individuo può essere imputata la totale responsabilità o colpevolezza di tale confusione. Nel contempo, infatti, ognuno di noi interpreta, più o meno coscientemente, due ruoli distinti e contrapposti: da una parte quello dell’impiccato e dall’altra quello del boia, che impicca altri individui a ciò condannati; da una parte genera confusione e dall’altra viene confuso dalla confusione generata dagli altri. Così, privo di punti di riferimento stabili e precisi che gli consentano di navigare quietamente fra le onde dell’oceano dell’esistenza materiale, l’uomo moderno, colmo di angosce e timori apparentemente insormontabili, fragile ed instabile nella psiche e pietosamente stremato da nevrosi di varia natura ed origine che gli sottraggono, assorbendole occultamente, ingenti energie, si ritrova tristemente isolato ed incessantemente sballottato e trasportato verso ignote direzioni da tragici ed incontrollabili eventi esterni e da idee aberranti impostegli da individui più forti e prepotenti, che come una tempesta di venti impetuosi lo travolgono e lo costringono a naufragare, spingendo inesorabilmente alla deriva gli irriconoscibili detriti della sua fragile imbarcazione(1). L’uomo della Tradizione, che vive sulla base di un insieme di valori tradizionali, e in particolare di quelli appartenenti alla Tradizione vedico-vaisnava, aveva ed ha tuttora una propria visione cosmogonica: vede e comprende l’universo, essendo quindi in grado di individuare con precisione e certezza la propria posizione nella vastità della manifestazione cosmica. L’uomo moderno, al contrario, ha perso tutti questi punti di riferimento; e paradossalmente, pur avendo fatto passi da gigante nel campo della tecnologia, e in particolare nel settore delle comunicazioni, incontra serissime, quasi insormontabili difficoltà nel comunicare con gli altri. Perduta gradualmente la visione della realtà nella sua organicità, nella sua inscindibile interezza, perduta la consapevolezza della stretta relazione che intercorre fra le parti e il Tutto, si è immerso nello studio ostinato e reiterato del frammento in sè, delle micro-realtà scisse dall’insieme; ma, pur essendone diventato tanto esperto da inventare microscopi e altri macchinari potentissimi(2), deve riconoscere con stupore, sgomento e persino una punta di amarezza che la natura materiale, prendendosi gioco di lui, esce sempre e comunque indenne da questa lotta impari. La natura materiale, infatti, è paragonabile a una scatola cinese: una volta scoperta una cosiddetta realtà, se ne scopre subito un’altra che dalla prima veniva racchiusa. Per cui l’uomo moderno rischia di andare incontro a uno smarrimento traboccante di cupa angoscia, un sottile ma diffuso “mal di vivere” che si radica sempre più profondamente ed acremente negli animi (soprattutto dei più giovani) e che si aggrava pesantemente una volta scoperta la mancanza di risposte ad ampio respiro da parte delle religioni storicamente affermate, le quali spesso impiegano le proprie enormi energie e risorse nella ricerca di vasti consensi popolari, senza però dare risposte soddisfacenti ai tormentosi quesiti sul senso globale dell’intera vicenda cosmica, focalizzando sempre la gran parte dei loro interessi, al contrario, sulla sola sfera antropologica, quindi sull’uomo e sulle sue problematiche. Con atteggiamento assurdamente e riduttivamente antropocentrico, si adoperano quanto più possono per elaborare fin nei minimi dettagli una politica per l’uomo, con intricati (e spesso irrealizzabili) piani economici e sociali su scala nazionale ed internazionale, trascurando, purtroppo, una semplice verità di fondo: l’uomo, se non è in grado di percepirsi nell’essenza e di individuare se stesso nel suo contesto socio-cosmico, non potrà fare nemmeno un progetto serio per il proprio divenire(3). Si rivela quindi necessario definire con la maggior precisione possibile la cosmogonia, o il disegno universale, e l’escatologia, o il fine dell’esistenza.

(1) I sociologi affermano che una setta è costituita da un insieme di persone che tentano di fuggire dalla realtà per cercare una loro dimensione astratta. Per realtà generalmente essi intendono la società espressa dal mondo fisico; concordiamo sul fatto che nel tentativo di sfuggire a quella pseudo-realtà (procedendo nel saggio, risulterà chiaro per quale ragione definiamo pseudo-realtà il mondo fisico) molta gente crea altre pseudo-realtà, ma, come avremo modo di vedere, l’uomo dovrebbe prendere in seria considerazione un aspetto che è di primaria importanza per la vita di ciascuno: l’aldilà.
(2) Ci riferiamo, qui, non solo al riduzionismo, ma anche agli “specialismi” che tanto caratterizzano la vita culturale dell’Occidente moderno.
(3) Con ciò non intendiamo disconoscere l’insieme dei valori etici e spirituali conservati e promossi dalle religioni storiche (il che sarebbe in contraddizione con la necessità di riferirsi a un sapere tradizionale, di cui prima dicevamo), né sminuire l’importanza delle loro azioni sul piano sociale; semplicemente sentiamo la necessità di un’integrazione, di un completamento e rifinimento dei campi d’azione.

22 marzo 2009

'La via iniziatica' di Shriman Matsyavatara Prabhu.

Tutti albergano nel cuore l’intima aspirazione ad ampliare ed espandere progressivamente la propria coscienza della realtà fino ad abbracciare l’intera manifestazione cosmica, per carpirne infine i segreti più riposti e inaccessibili, ma, per quanto tale desiderio costituisca di per sé un potente stimolo alla ricerca, si rivela tuttavia tanto insufficiente quanto invece è necessario condurre tale ricerca in modo protetto, incamminandosi cioè su una via già tracciata e percorsa con successo da innumerevoli individui nel passato(1), non certo inventandone una nuova di sana pianta(2). L'essere spirituale, che vaga nel mondo fenomenico dimentico del proprio vero Sè, della propria vera natura, tenta affannosamente di comprendere, vita dopo vita, quali siano la propria collocazione e funzione nel contesto dell'universo. Ignorando quali siano la propria identità, la propria origine e la propria destinazione, in questo viaggio periglioso, non riesce a dare un senso alla vita. Gioie e dolori si palesano ai suoi occhi come manifestazioni caduche, impermanenti(3); pur essendosi messo alla ricerca della felicità, incontra piaceri effimeri, che si trasformano sempre e soltanto in dolori. Sente un anelito indomabile alla felicità, ma è incapace di accedere a questo stato dell'essere e si scontra continuamente con ciò che gli è opposto, l'infelicità. Ha sperimentato che tutto ciò che è caro prima o poi sfugge di mano e che il possesso, pur presentandosi come uno strumento di gioia, risulta impossibile a detenersi; quindi si trasforma inevitabilmente in dolore anche quella gioia iniziale verso la quale il possesso tendeva. L’essere infine giunge ad una considerazione inevitabile: la vita è sofferenza. La giostra di gioie e dolori continua a girare senza sosta finchè quest'anima peregrina non incontra una persona risvegliata, che vive nel Sè, che ha esperienza del Sè, che vede la Realtà e vive nella Realtà, che non solo ha sperimentato ma vive continuamente quell'esperienza che è al di là degli opposti dualismi che provocano eternamente gioie e dolori. Questa persona rivela un grande segreto all'anima “in pena”: le dice che la sua essenza è spirituale e che esiste un sentiero, lo Yoga, percorrendo il quale è possibile stabilirsi fermamente in quella dimensione dell'essere in cui ci si percepisce come sac-cid-ananda, ossia dotati di esistenza, intelligenza e beatitudine. Esistenza (sat) potrebbe sembrare solo una parola, ma in realtà indica la continuità della percezione della propria individualità, dell'Io vero, che non conosce né morte né interruzione alcuna. Intelligenza (cit) indica l’esser sempre coscienti e beatitudine (ananda) indica l’insorgere di un sentimento di intensa felicità, di cui l’essere per natura è colmo. Per coloro che aspirano, dunque, non solo a soddisfare i bisogni che rientrano nella sfera antropologica, ma anche a superarli per raggiungere passo dopo passo quello stato di coscienza divina in cui l’essere vede sciogliersi per sempre gli asfissianti legami che lo tenevano aggiogato alle sempre mutevoli forme della materia, non sono sufficienti né il pensare né l’agire. Una caratteristica del sentiero della perfezione indicato dai Veda, infatti, è l’aspetto iniziatico; non si può procedere da soli(4): è necessaria la guida di un Guru, una persona realizzata in quella scienza all’interno di una successione di maestri (Parampara)(5). Lo studio e la pratica della scienza sacra, quindi il percorso che parte da dharma per giungere a moksa e successivamente a prema, sono sempre precedute dai rispettosi omaggi all'insegnante, al Maestro, al Guru(6), colui che insegna la scienza della realizzazione spirituale, l'arte della vita, che permette di approdare dalla morte all’immortalità. Chi desidera penetrare i concetti propri della conoscenza che trascende i limiti e le risorse di cui solitamente sono dotati gli umani, deve trovare il modo di accedere ad un livello superiore di coscienza(7): ciò è possibile grazie all'intercessione di persone che vivono ad un livello tale.

om ajnana-timirandhasya jnananjana-salakaya
caksur unmilitam yena tasmai sri-gurave namah(8).

"Offro i miei rispettosi omaggi al mio maestro spirituale, che ha aperto i miei occhi, accecati dalle tenebre dell’ignoranza, con la torcia della conoscenza trascendente."

Colui che, dopo aver superato la densa foresta dell’illusione, si sente ormai giunto al termine dell'esperienza umana, può intraprendere la via iniziatica. In alcuni passi della letteratura vedica viene persino affermato che una persona che non abbia un maestro spirituale non dev'essere nemmeno considerata civile. Diksha (l’iniziazione) non è facoltativa, ma è una tappa inevitabile dell'esistenza, necessaria per giungere alla piena maturità. Per compiere l'evoluzione umana, per trasferirsi dal piano umano a quello divino, diksa è indispensabile. L’iniziazione equivale ad una simbolica morte nella vita profana e ad una reale rinascita nella vita spirituale. L'iniziazione spirituale (Diksha) di fatto è un ricollegamento alla Realtà superiore(9). Ben triste è il destino di colui che lascia il corpo senza aver ricevuto dik.sa; così dice il Garuda Purana, così dice il Rig-veda, così dicono il Mahabharata e lo Shrimad Bhagavatam. Nel Garuda Purana si arriva persino a distinguere le persone in due categorie: coloro che hanno ricevuto diksha e coloro che non l’hanno ricevuta. Quella tracciata dalle Upanishad e dalla B.G è una via iniziatica; Krishna in più occasioni parla di raja-guhyam (segreto regale) e raja-vidyam (conoscenza regale). Una delle accezioni più forti della parola Upanishad è "insegnamento segreto", ovvero che si può dare solo a persone iniziate. Che senso può avere dunque - ci si chiederà - pubblicare scritti che verranno letti da innumerevoli persone che non sono iniziate? La risposta è che intendiamo offrire al grande pubblico un panorama dell'insegnamento vedico-vaishnava, restando tuttavia pienamente coscienti del fatto che soltanto coloro che sono autenticamente ricollegati alla Realtà superiore otterranno effettivo beneficio dalla lettura, mentre coloro che non lo sono avranno come una pre-visione, una visione vaga di ciò che in essi viene esposto; la capitalizzazione del patrimonio più concreto, l’effettiva realizzazione spirituale, non avverrà per questi ultimi, perchè la loro comprensione si limita al piano psichico, che è completamente inadeguato ed insufficiente per accedere alla realizzazione spirituale, allo stato in cui l’essere si risveglia in senso spirituale. Come abbiamo accennato, esistono diversi piani di comprensione della Realtà: adhibautika, adhidaivika e adhiatmika; solo chi vede dal piano adhiatmika riuscirà a comprendere veramente ciò che è propriamente divino, spirituale. Per questa ragione alcuni, che sembra abbiano capito tutto, all’atto pratico commettono un errore dopo l’altro; di fatto non hanno capito niente, perchè la loro comprensione è a livello superficiale, a livello psichico, intellettuale, non spirituale. Per chi è situato a livello spirituale non c'è più nessuna discrepanza fra quello che si è compreso, quello che si pensa, quello che si dice e quello che si fa. Il sapere iniziatico, dunque, può essere trasmesso avvertendo in anticipo che ognuno comprenderà in proporzione al proprio livello di coscienza. Come ciascun uccello in volo raggiunge l’altezza che gli permettono le proprie ali, così chi legge raggiungerà il livello di comprensione che gli permette la propria coscienza. Di fatto è per questo che i Veda insistono così fortemente sulla necessità delle pratiche di purificazione, o di decontaminazione del carattere. Per questa stessa ragione è richiesta una vita di purezza; non perché la purezza abbia valore di per sè, ma perché permette di raggiungere livelli di comprensione che sarebbero irraggiungibili senza di essa. Ciò non avviene per la forza di un volere superiore, perché non c'è niente di dogmatico o di artificialmente imposto in tutto questo. Con grande rispetto, dunque, dovremmo introdurci in questo dominio che spesso non è padroneggiato neanche dagli esseri celesti, gli dei, le grandi personalità che vivono nei pianeti Svarga o in genere in Svargaloka(10) La via iniziatica è aperta a tutti, ma come sempre ci saranno coloro che nutriranno un sano, intenso desiderio di immortalità (icchami Brahman o icchami amritam) e coloro che parteciperanno in maniera passiva. Così è fatto il mondo. Per la legge del karman, le comprensioni delle due categorie di persone non potranno essere identiche.


(1) Nella Civiltà dei Veda sono tre le vie (traya mårga) per il raggiungimento della liberazione (moksha): il karma-marga (via dell’azione), il jnana-marga (via della conoscenza e della meditazione) e il bhakti marga (via della devozione amorosa a Dio). Ne parleremo più diffusamente nella Terza Parte, in cui illustreremo in particolare il bhakti-marga.
(2) Oggigiorno, al contrario, è frequente inventare teorie che andranno poi a costituire una “nuova” religione, assolutamente inventata e senza nessuna reale radice nella Tradizione (vedi l’intero, o quasi, filone New Age).
(3) Anitya, "ciò che non è permanente".
(4) L’individuo, se non viene educato, guidato, aiutato, corretto e costantemente incoraggiato, si trova ben presto in una situazione difficile, perché il sentiero si presenta irto di ostacoli di vario genere.
(5) Gli acarya, come A.C. Bhaktivedanta Svaami Prabhupada, sono grandi maestri e pensatori che, attinto il sapere a un livello sovrumano, lo trasmettono poi ai propri discepoli, i quali, una volta acquisite le qualità necessarie, lo trasmetteranno a loro volta ai propri discepoli. Ciò costituisce il sistema di conservazione e trasmissione della Rivelazione denominato parampara, che letteralmente significa “dall’uno all’altro”; poi vuol dire molto di più, naturalmente: un sistema di conoscenza, un sistema, un insieme di valori, tramandati di maestro in discepolo, ma il significato più immediato è ‘dall’uno all’altro’. Perciò, quando incontriamo persone che, anziché andare al mare o in montagna o dietro la gratificazione dei sensi in qualche forma, si riuniscono per cercare il sé, come nelle Upanishad (‘Tutti seduti ai piedi del maestro’ è la traduzione letterale di Upanishad), per ricevere gli insegnamenti più esoterici che permettono di proseguire sulla strada della realizzazione spirituale, dovremmo esser capaci di cogliere quell’occasione benedetta, sacra, per trasmettere un messaggio così prezioso, che non è solo patrimonio degli indiani, ma di tutta l’umanità. Ecco il significato di sacrificio: rendere sacro tutto quel che facciamo.
(6) Guru è una parola sanscrita che significa ‘insegnante’; qui ne ripudiamo gli abusi e gli usi a sproposito da parte di persone che non sono consapevoli della sua reale portata, pronunciando tale termine in relazione a personaggi e situazioni che con la scienza sacra e con la Tradizione non hanno niente a che fare.
(7) Nella letteratura vedica sono indicati i tre livelli di comprensione della Realtà: 1. adhibhautika: il piano terrestre, quello degli elementi fisici primari, più facilmente accessibile agli esseri incarnati. 2. adhidaivika: riguarda i deva, il cosmo e la cosmogonia, l'influenza dell'atmosfera, i pianeti e la creazione dell'universo. 3. adhyatmika: attiene al piano più elevato, quello spirituale, alla nitya-svarupa dell'åtman e all’ontologia dell’Essere Supremo.
(8) Questo è un mantra del (Gautamiya-tantra).
(9) Affinchè un individuo possa ricollegare altri alla coscienza del Divino, adempiendo così al sommo dovere del Guru, deve essere egli stesso di fatto ricollegato, avendo a sua volta ricevuto l’iniziazione da un altro individuo autenticamente risvegliato in senso spirituale. Chi non è collegato a quella coscienza non può collegare nessuno, a prescindere dai timbri rotondi, dalle carte bollate, dalle autorizzazioni rilasciate dalle gerarchie. Solo una persona risvegliata può risvegliare. Quindi, in essenza, iniziazione vuol dire essere ricollegati. E quando una persona è ricollegata lo sente. Certo, per rendere visibile questo ricollegamento si usa una cerimonia, ma non è la cerimonia che ricollega: è il ricollegamento in sè. La cerimonia è la celebrazione di questo collegamento, che però deve essere esistente.
(10) Uno dei pianeti della cosmogonia puranica.

17 marzo 2009

'La Murti' di Shriman Matsyavatara Prabhu.

Murti è un termine sanscrito che indica una manifestazione fisica, dimensionale e visiva di una Divinità. Nella realtà dell'esperienza quotidiana noi possiamo avere conoscenza solamente delle cose che cadono sotto la nostra percezione sensoriale, che possiedono cioè una forma (murta), ecco perché è più facile, per chi vive in questa dimensione, avere un approccio al Divino anche attraverso la Murti. Prima di parlare dell'iconografia di Vishnu, Krishna, o di altre Divinità è doveroso fare alcune precisazioni riguardo alla natura e alla funzione del simbolo, e più precisamente delineare le differenze che vi sono tra il simbolo come viene concepito nella psicologia o nella linguistica occidentali e il suo valore nell’ambito del Divino nella tradizione vaishnava. Nelle scienze psicologiche il simbolo ha una valenza abbastanza ampia, infatti l’analisi dell’attività onirica, considerata appunto simbolo rivelatore dell’inconscio, va sicuramente oltre il mero, immediato significato dell'oggetto, per sfociare in valori, concetti e sentimenti più ampi, sottili e remoti. L'inno nazionale o una bandiera simboleggiano una nazionalità; possono evocare sentimenti di appartenenza ad una nazione in tutti coloro che con essa si identificano, ma una volta espletata tale funzione questi simboli, non contenendo un senso ulteriore, esauriscono gran parte della loro importanzae funzione. Certo, una bandiera o un inno nazionale non possono dirsi semplicemente un pezzo di stoffa o un brano musicale, perché in essi c’è un valore aggiunto, ma tale valore è proprio di una simbologia che si esprime sul piano transiente, in ambito fenomenico o adhibhautika, per cui rientra nella dimensione storica, temporanea, non in quella sacra, metafisica, metastorica. Nella teologia vaishnava il simbolo è una realtà di per sé, un prolungamento della dialettica del Divino infatti, tutto ciò che non si può considerare direttamente connesso alla sfera spirituale, lo diventa perché partecipa ad un simbolo. La Murti, benché rappresentata da elementi fisici, trascende la realtà fenomenica, e tutti gli ornamenti, gli oggetti ad Essa relativi (il flauto, la mazza o il disco, gli abiti, la tiara o la piuma di pavone) partecipano alla Sua sacralità. In questo senso il simbolo è esso stesso una ierofania, in quanto rivela la realtà sacra, ontologica, suprema; è un riflesso (praticchaya) del Divino. Per questo motivo, proprio perché la Murti non si limita ad una certa conglomerazione di elementi, ma rappresenta qualcosa che va ben oltre, la Sua adorazione non può andare sotto il nome di idolatria. Come spiega Bhaktivedanta Svami Prabhupada, "Le Scritture vediche precisano che il culto di Dio può essere saguna (con attributi) o nirguna (senza attributi), ovvero rivolto alla manifestazione personalistica o impersonalistica di Dio. L'adorazione delle Murti nel tempio è saguna perché il Signore vi è rappresentato con l'aiuto di elementi materiali. Ma la forma del Signore non è materiale anche se rappresentata nel legno, nella pietra o nei quadri ad olio. La natura del Signore Supremo rimane assoluta. Facciamo un esempio un po' spiccio ma appropriato: una lettera impostata in una delle buche postali che sono collocate sulla via pubblica giungerà a destinazione senza difficoltà; la stessa cosa non accadrà ad una lettera gettata in una qualsiasi fessura o in una imitazione di buca da lettere non riconosciuta dall'ufficio postale. Così Dio, il Signore Supremo ha la Sua rappresentazione autorizzata nella Murti o arca-vigraha che è una Sua manifestazione; attraverso la Sua forma arca, Dio, onnipresente e onnipotente, può accettare le offerte del Suo devoto e facilitare così il servizio che Gli dedicano le anime incarnate”. Gli Shastra Vaishnava affermano che la qualità della fede religiosa, in un dinamico equilibrio con la purezza di cuore e di mente(1), “trasforma” gli oggetti in qualcosa di diverso da quel che sembrano nell’esperienza profana; e questi oggetti, attraverso un processo “simbolico”, assumendo il ruolo di simboli sacri, ovvero “indicatori” (nidarshana) di una realtà spirituale, trascendono i loro limiti materiali (marmo, legno, stoffa, metallo, suono, pensiero ed altro), cessando di essere frammenti isolati, grossolani o sottili, a seconda che siano costituiti di elementi fisici o psichici, per integrarsi in un sistema o, meglio ancora, per rappresentare la sfera del sacro e rivelarne la dimensione. Quel che vale per la Murti vale anche per il Nama (Nome divino), per i Lila (giochi divini), per il Dhama (luogo santificato da una manifestazione del Signore), per gli Shastra (Sacre Scritture); tutte queste rappresentazioni del Divino possono essere percepite attraverso il processo simbolico e contemporaneamente ciascuna di esse non solo rappresenta la realtà suprema, tattva, ma è tattva di per sé. Il simbolo può essere compreso a vari livelli: fisico-letterale(2), psichico-concettuale-immaginativo(3) o spirituale-rasika(4), a seconda della consapevolezza e delle capacità proprie dell'individuo. Poichè molto raramente chi intraprende un cammino spirituale è libero dal condizionamento degli opposti (dvandva)(5), tenderà a percepire la Murti, il Nama, gli Shastra e via dicendo nel modo fisico-letterale, non avendo quell'equilibrio sufficiente che fornisce la chiave di lettura per tutti i livelli. Questa iniziale percezione del Divino è comunque apprezzata da chi vive una coscienza elevata; il sadhaka evoluto infatti non svaluterà le percezioni immediate, sensoriali, perché consapevole che nella fase propria del kanishtha esse sono necessarie per potersi elevare e procedere oltre sul sentiero della realizzazione del sé. L’oggetto “simbolo sacro” ha valenza ontologica nel Vaishnavismo e, pur apparendo contestualizzato entro il paradigma spazio-temporale, a seconda della qualità della fede religiosa e delle intrinseche capacità e qualificazioni (adhikara) del ricercatore, può rivelare ben altri orizzonti. A differenza dell’asta per il salto in alto, che porta l’atleta oltre l’ostacolo ma subito dopo viene da questi abbandonata in quanto ha esaurito la sua funzione, il simbolo sacro proietta il devoto vaishnava oltre la dimensione fenomenica, sul piano della Realtà e, al contrario del simbolo profano, dopo aver espletato questo compito non si dissolve né si svaluta e, mantenendo immutata la propria funzione, continua ad evocare nel sadhaka emozioni e sentimenti spirituali (rasa).

(1) La fede autentica (shraddha), ingrediente primario per esperire il Divino, favorisce anche il processo di purificazione della mente e del cuore, ma è altrettanto vero che senza la purezza di cuore e di mente non si può giungere ad una fede salda e genuina.
(2) In questo caso il ricercatore spirituale (sadhaka) non riuscirà a percepire la Murti oltre l'aspetto di statua sacra; considererà gli Shastra come libri autorevoli, ma non riuscirà a superarne il senso letterale; per lui il Santo Nome sarà poco più di un suono e via dicendo.
(3) In questa fase il sadhaka non si limita più all’impatto pratyaksha con la realtà: lo ha superato per cominciare un cammino simbolico, interiore; riesce a concettualizzare, ad avere intuizioni e realizzazioni, a fare delle associazioni, comincia ad ampliare la propria cornice conoscitiva e a cogliere aspetti più sottili, dinamici, trascendenti della sfera del sensibile.
(4)‘Nell'ambito del rasa’. Rasa è tutto ciò che possiede gusto e sentimento; qui si allude al puro ambito spirituale. A questo stadio il sadhaka, ormai evoluto al massimo grado, ottiene la definitiva, nitida percezione della realtà assoluta: si ha dunque la completa attivazione dei sentimenti spirituali, che fluiscono continuamente e reciprocamente tra devoto e Divinità.
(5) Questo termine sanscrito designa la “coppia di opposti”, che possono essere di natura esteriore o interiore, ad esempio caldo-freddo oppure gioia-dolore. Rappresentano la dualità che caratterizza il mondo delle condizioni e il sadhaka, con l’aiuto del guru e della disciplina spirituale (sadhana), deve comprenderli a fondo ed armonizzarli per giungere al livello di nirdvandva, in cui non si è più soggetti alla continua, dolorosa oscillazione tra poli opposti. Cfr. Bhagavad-gita II.14-15; II.45; V.3 e VII.27-28.

14 marzo 2009

Paradiso e Inferno.

Un sant'uomo ebbe un giorno da conversare con Dio e gli chiese: 'Signore, mi piacerebbe sapere come sono il Paradiso e l'Inferno'. Dio condusse il sant'uomo verso due porte. Aprì una delle due e gli permise di guardare all'interno. Al centro della stanza, c'era una grandissima tavola rotonda. Al centro della tavola, si trovava un grandissimo recipiente contenente cibo dal profumo delizioso. Il sant'uomo sentì l'acquolina in bocca. Le persone sedute attorno al tavolo erano magre, dall'aspetto livido e malato. Avevano tutti l'aria affamata. Avevano dei cucchiai dai manici lunghissimi, attaccati alle loro braccia. Tutti potevano raggiungere il piatto di cibo e raccoglierne un po', ma poiché il manico del cucchiaio era più lungo del loro braccio, non potevano accostare il cibo alla bocca. Il sant'uomo tremò alla vista della loro miseria e delle loro sofferenze. Dio disse: 'Hai appena visto l'Inferno'. Dio e l'uomo si diressero verso la seconda porta. Dio l'aprì. La scena che l'uomo vide era identica alla precedente. C'era la grande tavola rotonda, il recipiente colmo di cibo delizioso che gli fece ancora venire l'acquolina. Le persone intorno alla tavola avevano anch'esse i cucchiai dai lunghi manici. Questa volta, però, le persone erano ben nutrite e felici e conversavano tra di loro sorridendo. Il sant'uomo disse a Dio: 'Non capisco!'. E' semplice, rispose Dio, dipende solo da un'abilità. Essi hanno appreso a nutrirsi gli uni gli altri mentre gli altri non pensano che a loro stessi.

12 marzo 2009

'La Condivisione' di Shriman Matsyavatara Prabhu.

Non c'è condivisione superiore a quella che avviene sul piano spirituale. Non possiamo immaginare condivisione più appagante, completa e perfetta di questa. Altri tipi di condivisione sono in realtà solo illusioni, senza scambi profondi né reale comunione. Se purifichiamo il nostro cuore dagli anartha, attraverso la pratica costante di shravana e kirtana, riusciremo a percepire, vivere ed apprezzare sempre più la condivisione sul piano spirituale. Ciechi e stolti sono coloro che non comprendono la grandezza, la fortuna, il valore immenso della compagnia del Maestro Spirituale che possiamo assaporare e sperimentare se seguiamo con completo assorbimento e pura devozione il Suo esempio e i Suoi insegnamenti. Le Murti sono la presenza stessa del Signore, ma chi è assediato dagli anartha, ad esempio dalla bramosia egoica o dall'invidia, non può vedere che statue e non riesce a percepire quel flusso intenso, sempre crescente, traboccante di Affetto e Amore che scorre tra il devoto e la Divinità. Anche gli insegnamenti degli Shastra o le parole del Maestro spirituale, che sono rare perle in questo mondo, di unico ed inestimabile valore, rimangono oggetti muti e aridi, quasi scontati o banali, per chi non si impegna con serietà, entusiasmo e vigore nel processo essenziale della Sadhana Bhakti. Ho purtroppo visto tante persone cadere, proprio perchè la contaminazione del cuore le aveva private di gusto per la vita spirituale, le aveva fatte cedere ad una familiarità malsana verso il Guru, il Prasadam, le Murti, il Servizio devozionale, l'eccelsa meditazione sui Nomi divini, che purtroppo non riuscivano più ad essere da loro apprezzati e valorizzati per la loro grandezza unica. Questo tipo di familiarità malata uccide la comprensione e la devozione. Nei momenti di crisi provate a pensare a quali potrebbero essere le alternative alla vita che state conducendo e capirete, se sarete in grado di accogliere la Misericordia di Guru e Krishna, che in realtà non vi sono alternative, perché sarebbe come privarsi della vita per andare incontro alla morte. Il piacere e i desideri spirituali sono per loro natura in continua, infinita espansione, ma ciò che li contraddistingue dalle passioni mondane che mai si placano è la natura di beatitudine che sempre accompagna ogni stato dell'essere che vibra di una coscienza elevata. Anche la sofferenza delle Gopi quando piangevano per la separazione da Krishna era comunque intrisa di piacere e felicità indicibili, anzi la separazione accresceva d'intensità questi sentimenti, perché la loro devozione e il loro amore puro le teneva in costante comunione con il loro Amato, oltre i limiti di spazio e tempo. Non c'era in loro reale separazione da Dio. E' sempre dunque l'elevazione e la purificazione della nostra coscienza e del nostro cuore che dobbiamo ricercare per riuscire ad apprezzare la Realtà spirituale che in noi è sempre presente e che riusciremo a cogliere in proporzione al nostro livello di realizzazione.

09 marzo 2009

'Il dharma, sostegno dell’universo' di Shriman Matsyavatara Prabhu.


La civiltà moderna appare nella storia come una vera e propria anomalia: fra tutte quelle che conosciamo essa è la sola che si sia sviluppata in senso puramente materiale, la sola che altresì non si fondi su alcun principio di ordine superiore. Tale sviluppo materiale, che prosegue ormai da diversi secoli, è stato accompagnato da un regresso intellettuale che esso è del tutto incapace di compensare.
René Guénon, 'La crisi del mondo moderno'.

L’uomo moderno è confuso, privo di punti di riferimento stabili e precisi che gli consentano di navigare quietamente fra le onde della vita, colmo di angosce e timori apparentemente insormontabili, fragile ed instabile nella psiche e pietosamente stremato da nevrosi di varia natura ed origine, che gli sottraggono, assorbendole occultamente, ingenti energie; e si ritrova anche tristemente isolato ed incessantemente sballottato e trascinato verso ignote direzioni da tragici ed incontrollabili eventi e da idee aberranti impostegli da individui più forti e prepotenti che, come una tempesta di venti impetuosi, lo travolgono e lo costringono a naufragare, spingendo inesorabilmente alla deriva gli irriconoscibili resti della sua fragile imbarcazione. L’uomo della Tradizione, che basa la propria vita su di un insieme di valori appunto tradizionali, aveva ed ha tuttora una visione cosmogonica: vede e comprende l’universo, ed è quindi in grado di individuare con precisione e certezza la propria posizione nella vastità della manifestazione cosmica. L’uomo moderno, al contrario, ha perso questi punti di riferimento e, paradossalmente, pur avendo fatto passi da gigante nel campo della tecnologia, in particolare nel settore delle comunicazioni, incontra serie, quasi insormontabili difficoltà nel comunicare con gli altri e con sé stesso. Perduta gradualmente la visione organica della realtà, la coscienza della sua inscindibile interezza, della connessione fra le parti e il tutto, si è immerso nello studio ostinato e reiterato dei frammenti, delle micro-realtà ma scisse dall’insieme. Pur essendo diventato capace d’inventare microscopi e altri potentissimi strumenti di indagine, deve alla fine riconoscere con stupore, sgomento e persino con una punta di amarezza, che la natura materiale, come prendendosi gioco di lui, esce sempre e comunque indenne da questa impari lotta per conoscere. La Natura è infatti paragonabile ad una scatola cinese: una volta scoperta una realtà se ne scorge subito un’altra, dalla prima racchiusa. L’uomo moderno rischia quindi di andare incontro ad uno smarrimento traboccante d’angoscia, un sottile ma diffuso “mal di vivere” che si radica sempre più profondamente ed acremente negli animi (soprattutto dei più giovani) e che si aggrava una volta scoperta la mancanza di risposte ad ampio respiro da parte delle varie religioni, le quali spesso impiegano le proprie enormi energie e risorse più nella ricerca di vasti consensi popolari, che nel dare risposte soddisfacenti ai tormentosi quesiti sul senso dell’intera vicenda cosmica, focalizzando al contrario la gran parte dei loro interessi, , sulla sola sfera antropologica, cioè sull’uomo e sulle sue problematiche. Con atteggiamento riduttivamente antropocentrico, si adoperano quanto più possono per elaborare fin nei minimi dettagli una politica per l’uomo, con intricati (e spesso irrealizzabili) piani economici e sociali, trascurando purtroppo una semplice verità di fondo: l’uomo, se non è in grado di individuare sé stesso nel suo contesto socio-cosmico e se non conosce sé stesso, non essendo in grado di percepirsi nell’essenza, nella realtà, non potrà fare nemmeno un progetto serio per il proprio divenire. Risulta quindi necessario delineare con la maggior precisione possibile la cosmogonia o disegno universale, e l’escatologiao fine dell’esistenza. Del progetto universale i Veda tracciano un disegno dai contorni estremamente ampi; cominciano infatti col descrivere i quattro obiettivi della vita umana evoluta ; dharma, artha, kama e moksha per raggiungere i quali la persona di buona qualità articola i propri sforzi e organizza le proprie risorse al meglio. L’arte della vita consiste nel conseguirli e viverli in maniera equilibrata, facendoli diventare tutti, uno dopo l’altro o contemporaneamente, una realizzazione di successo. Dharma è l’Ordine cosmico, la Legge di Dio, il volere del Signore, l’armonia, la sintonia con tutto ciò che vibra, la forza che tutto sostiene, il principio vitale e le leggi che lo mantengono. Senza dharma i pianeti non potrebbero mantenersi nelle loro orbite e noi non riusciremmo neanche a respirare se cessasse il nostro rapporto col dharma. Dharma è anche la religiosità, senza la quale non si potrebbe portare a compimento la benché minima azione, è l’acquisizione di quella pietà minima, di quei buoni sentimenti minimi che ci permettono di affrontare la vita e che andranno poi espansi fino al loro massimo; ne occorre comunque un minimo per vivere in mezzo alla gente, per vivere nel creato e fra le creature tutte. Col termine sanscrito bhuta, vogliamo in questo contesto indicare l’essere creato; la radice bhu infatti significa sia ‘essere’ che ‘divenire’ ma, se si aggiunge la desinenza ta, significa ‘creato’. Ma se l’anima è immortale , chi è ad esser creato? I corpi, mentre il principio vitale, l’atman, non viene creato: né nasce né muore. Tutte le creature nascono e muoiono solo apparentemente; in realtà ciò che nasce e che muore sono i corpi, quegli involucri costituiti di materia (prakriti) che l’essere immortale abita e che dall’essere rimangono sempre e comunque distinti e distanti. Nella Bhagavad-gita Krishna afferma che l’ottuplice materia , che noi percepiamo come forme e nomi, è separata da Lui ; e anche da noi, possiamo aggiungere. Organi, tessuti e cellule sono aggregati di materia separata dal nostro vero essere. Per fare chiarezza in questo ambiente alienato, in cui masse ottenebrate, colte da terribili crisi di identità, credono di essere il corpo, cioè si identificano totalmente con la prakriti, occorre il dharma. Il dharma fornisce alcune direttive fondamentali: yama e niyama , per vivere consapevolmente in qualunque luogo ma soprattutto in quelli la cui atmosfera sia stata resa “incandescente” dalla passione (rajo-guna) e tenebrosa dall’ignoranza (tamo-guna) . Quando la coscienza del sé si sviluppa nella maniera corretta, cioè nel dharma, per cui l’individuo diventa dharmya, portatore di dharma o sostegno del dharma, è anche ‘sostenuto’ dal dharma. In un passo del Mahabharata viene affermato con forza che chi sostiene il dharma è dal dharma sostenuto, mentre chi calpesta il dharma viene dal dharma schiacciato. Col sostegno del dharma si può conseguire il secondo obiettivo: artha, ossia la prosperità economica, che di per sé non ha nessun connotato negativo , a meno che non comporti un agire volgare che abbrutisce il suo autore fino a fargli dimenticare i doveri prescritti, quelli che conducono alla finale realizzazione spirituale. Gli shastra consigliano di conseguire questo scopo perché risulta indispensabile procurarsi lecitamente i mezzi per potersi incamminare sulla via della perfezione; quando invece il ricongiungimento col Divino sarà diventato stabile e definitivo, e solo allora, non ci sarà più bisogno di sforzi specifici per artha: il Signore provvede direttamente. Tutto dipende quindi dall’aver fondato la propria vita sui principi del dharma, la regola celeste, la legge divina, l’Ordine sovrano che tutto mantiene. Osservando con attenzione i cicli naturali, possiamo scorgere la presenza di quest’Ordine divino: gli alberi tornano a fiorire regolarmente nella stessa stagione; i giorni e le notti si avvicendano da millenni con ritmo inalterato; il sole non abbandona mai la sua orbita perché, se la mutasse allontanandosi seppur di poco, si verrebbero a formare ghiacci di dimensioni colossali che ricoprirebbero l’intera superficie terrestre; e se si avvicinasse, modificando la propria orbita anche solo di un impercettibile tratto, andrebbe tutto a fuoco, l’acqua evaporerebbe, facendo scomparire la vegetazione e tutto ciò la cui sopravvivenza deriva dall’acqua. E’ il dharma che mantiene il sole e tutti gli astri nella loro orbita e che permette la vita sui pianeti; e la fonte del dharma è l’Essere sovrano che, per mezzo del dharma, stipula un patto equo con tutte le creature senza favorire nessuno o penalizzare qualcuno. E’ solo in base al modo con cui ci rapportiamo al dharma, infatti, che dovremo fronteggiare le conseguenze delle azioni da noi compiute, sia in positivo che in negativo. E’ questo il principio fondamentale che regge la legge del karman, la rigorosa legge eterna della remunerazione delle azioni. Perciò l’uomo della Tradizione persegue lo sviluppo concreto e tangibile dei princìpi fondamentali del dharma, sforzandosi costantemente e alacremente di applicarne nella vita quotidiana gli assunti teorici, non riconoscendo nessuna reale importanza al filosofare fine a se stesso, avulso dalla realtà ed incapace di liberare l’essere dal problema di fondo dell’esistenza incarnata: la sofferenza. Ricerca quindi un’intima ed autentica interiorizzazione delle leggi del dharma e la loro espressione genuina sia nel pensare che nel parlare ad altri, sia nel commentare gli eventi e i mutamenti che si susseguono nella società e nella natura che nell’agire. Dopo il conseguimento di artha sulla base del dharma, si passa a kama, termine col quale vogliamo qui indicare la ricerca del piacere, del gioire. Se queste gioie vengono da artha, cioè se non sono state ricercate con i mezzi altrui ma con i propri, e se questi mezzi sono stati procurati sulla base di dharma, di regole morali, etiche e spirituali , allora sorge la gioia, il senso di soddisfazione che segue alla realizzazione del piacere. Per essere più precisi va detto in tal caso che la ricerca del piacere cessa di essere ossessiva e non condiziona più la mente dell’individuo al punto da indurlo a fare scelte sbagliate pur di ottenere stimoli meramente sensoriali. Quando conseguiti in armonia con l’Ordine divino i cosiddetti piaceri sono anch’essi potenzialmente in grado di condurre l’uomo alla riflessione e gradualmente al distacco, per poi consentirgli di dedicarsi unicamente, con quiete e lucidità, al perseguimento del quarto degli scopi che i Veda indicano tipici dell’uomo evoluto: moksha, la liberazione definitiva dalle illusioni, dall’identificazione con la materia e dagli attaccamenti mondani, cioè da quelle che sono le sorgenti del dolore. Pertanto, dare all’uomo una cornice ampia, universale, informazioni non solo sulla dimensione dello spirito ma anche sulla varietà della manifestazione cosmica e, come abbiamo spiegato poc’anzi, rivelargli il dharma e le sue regole fondamentali, tutto ciò significa fornirgli da subito gli strumenti essenziali per progettare, guidare e quindi determinare il proprio avvenire. La messa a disposizione di questi strumenti costituisce la più elevata attività umanitaria, che però arreca benefici non solo all’uomo, dato che il dharma va a beneficio di tutte le creature e dell’ambiente, inteso come micro e macro-atmosfera. Una visione dell’universo basata su di una concezione spiccatamente e dichiaratamente antropocentrica sarebbe una riduzione a dir poco inquietante, che implicherebbe una drastica (seppur non totale) riduzione delle migliori capacità e potenzialità di realizzazione spirituale. L’uomo, infatti, non ha una posizione così centrale. La concezione vedico-vaishnava dell’universo è teocentrica: è Dio il motore dell’universo. E’ il supremo, dolce desiderio del Signore che provvede a tutto. E se tutte le creature, in particolar modo l’uomo, ponessero il Signore al centro delle proprie attenzioni, della propria cura, dei propri pensieri, delle proprie parole, tutto ciò che vorrebbero ottenere si presenterebbe quasi spontaneamente, con difficoltà ridotte in proporzione a quanto si saranno concentrate nella contemplazione di Dio; e tutte le azioni così compiute andrebbero a beneficio non solo degli uomini ma, lo ripetiamo, di tutte le creature. Al contrario, se in una sorta di ossessione antropocentrica e quindi in un ennesimo feticismo di specie, l’uomo fosse portato a considerare degna di cure ed attenzioni soltanto la ‘propria’ specie, non sarebbe neanche in grado di mantenere in salute questo pianeta, divenendo causa di continue e gravi crisi ecologiche, dato che l’equilibrio ecologico si può mantenere solo a patto che ci si adoperi per il benessere di ‘tutte’ le creature, lasciando che ognuna di esse esprima in piena libertà la propria natura. Certo l’uomo viene considerato sovrano sulle creature, ma il Sovrano vero in realtà è Dio, sovrano anche sull’uomo. L’uomo ha il dovere di far da guida alle creature meno intelligenti ed evolute, ma ciò significa assegnare un ruolo a ciascuna di esse senza abusare di nessuna, altrimenti non più di guida si tratterebbe bensì di sfruttamento. E’ quindi urgentemente necessario rivedere con serietà i concetti stessi di storia, di progresso e di evoluzione, di sociologia, di benessere e di economia. Pensare che gli esseri umani siano gli unici cittadini a pieno diritto del pianeta è troppo riduttivo; dovremmo estendere il concetto di habeas corpus anche alle specie animali. Per quale ragione dovremmo limitare l’amore, di cui spesso si parla, alla sola umanità? Porre l’umanità al centro dell’universo è malattia tipica della filosofia moderna.

06 marzo 2009

'Il mondo fuori e il mondo dentro' di Shriman Matsyavatara Prabhu.

Secondo l’Ayurveda, l’aria (vayu) e lo spazio (akasha) sono due caratteristiche fondamentali della mente. Lo spazio (akasha) è necessario per l’apertura mentale, l’aria (vayu) per il movimento; la mente è infatti molto mobile, molto rapida. In questo senso potremmo paragonarla al cielo, un cielo spesso coperto di nubi, che in questa metafora rappresentano i dubbi, le incertezze, gli insuccessi accumulati dall’individuo. In una condizione di conflittualità interiore, di incoerenza tra le aspirazioni profonde dell’anima e le richieste perentorie dei sensi, la mente si muove rapidamente, bruscamente, oscillando di continuo da un oggetto all’altro, incapace di finalizzarsi in una direzione precisa; il movimento, realtà che ha un suo senso positivo, scade così al livello patologico di mera motilità, ed è di conseguenza causa di esperienze dolorose. Questo rimbalzare incontrollato, senza coerenza, senza progetto, è ben visibile negli attacchi di ansia, di panico, di angoscia. La perdita di speranza nella capacità di superare i propri limiti, lo scoraggiamento, sono esperienze che chiudono il cielo mentale. La persona che vive in un ambiente ristretto, fisico o psichico che sia, è infatti generalmente depressa. Sul piano clinico le depressioni sono modificazioni del campo mentale in senso restrittivo, causate da sbandamenti emotivi che legano sempre più ad identificazioni erronee ed effimere, principale motivo di incatenamento al ciclo di nascite e morti (samsara). La natura dell’anima invece è felicità, beatitudine, senza sbalzi né discontinuità, per questo non è soggetta né a depressioni né a eccitazioni, entrambi sintomi di inappagamento profondo e di mancanza di armonia nell’individuo. L’aria, l’acqua, il cibo, sono elementi a noi essenziali perché è di questi elementi che il nostro corpo è costituito. Siamo incapsulati negli elementi, dice la Bhagavad-gita, XV.7: L’essere vivente nel mondo della vita condizionata è un mio frammento eterno, ma lotta contro i sensi e la mente situati [generati] nella prakriti. Eppure esiste una via per liberarsi, per sfuggire ai condizionamenti di questa esistenza costretta, poiché anche gli elementi materiali, ben descritti nella filosofia Samkhya, originariamente non sono forza caotica, bensì energia di matrice divina. Ciò è ben spiegato nella letteratura upanishadica, che descrive in più passi, con un linguaggio simbolico e suggestivo, come nell’uomo e in ogni creatura siano presenti quegli stessi elementi che costituiscono l’universo, e come questi elementi siano di origine divina, ciascuno addirittura presieduto da una particolare manifestazione del Divino: "Le divinità, una volta generate, si precipitarono nel grande oceano [della vita] …[il Creatore] portò loro un uomo […] quindi disse loro: "Entrate ognuna nella sua dimora!". Il fuoco, fattosi parola, penetrò nella bocca; il vento, fattosi respiro, penetrò nelle narici, il sole, fattosi vista, penetrò negli occhi; i punti cardinali, fattisi udito, penetrarono nelle orecchie; le erbe e le piante, fattesi peli, penetrarono nella pelle; la luna, fattasi pensiero, penetrò nel cuore; la morte, fattasi apana, penetrò nell’ombelico; le acque, fattesi seme, penetrarono nel membro virile…". Nelle persone più dotate di visione, più libere dagli attaccamenti e dai condizionamenti, movimento e rapidità della mente si associano alla coerenza tra pensiero, parola e azione. C’è un piano, un progetto cui partecipano anche gli elementi di questa cosiddetta prigione, visibile nell’ordine che mantiene ogni componente di questa dimensione di realtà. L’evasione è a portata di mano se il disegno divino della realtà che ci circonda viene svelato; ciò può avvenire soltanto grazie allo sviluppo della consapevolezza e ad una visione elevata, che conducono verso la liberazione della Vita dalla crisalide della materia. Tale liberazione del sé spirituale, atman, viene tradizionalmente definita con il termine moksha, che corrisponde al kaivalya degli Yoga-sutra. La vista e il respiro sono entrambi collegati alla mente; esiste una visualizzazione interiore più elevata, ma c’è anche una visualizzazione esteriore che aiuta quella interiore. La visione di bei paesaggi naturali, ad esempio, aiuta ad espandere la mente, soprattutto se accompagnata da un impegno costante nella ricerca del sé e dalla compagnia di persone evolute. Simili visioni hanno da sempre costituito una componente importante nella vita di molti spiritualisti, soprattutto yogi, in quanto i luoghi di bellezza naturale agevolano l’ espandersi della mente e i moti lieti dell’animo. Visioni, attività e compagnie profondamente oneste e sincere portano alla guarigione, anche da gravi disturbi della personalità. I rimedi allopatici hanno effetti limitati e dovrebbero essere utilizzati solo in casi estremi, perché la cura funziona meglio se è attiva, vale a dire se la persona viene stimolata a lavorare su di sé, sugli atteggiamenti e sulle abitudini scorrette che hanno generato la malattia, a reimpostare consapevolmente la propria vita. Questo atteggiamento crea le giuste condizioni per dialogare, comprendere verità e trovare soluzioni ai problemi. Molte delle problematiche e delle cosiddette necessità di cui facciamo esperienza nella nostra società sono inesistenti, fantomatiche, ma le influenze della collettività, della magnetizzante comunicazione dei media, delle cattive compagnie, le rendono più reali di quanto non siano. E’ proprio per tentare di soddisfare bisogni irreali e quindi artificiali che gli individui affrontano molte frustrazioni e sofferenze. La fede (nella cura, in sé stessi, nel prossimo, nell’ordine naturale che assicura armonia al creato, nel Divino) rafforza la guarigione. Per sviluppare fede è necessario conoscere la scienza della vita, frequentare persone che siano ben indirizzate sul sentiero della guarigione ed ascoltare da loro esperienze di una differente dimensione di realtà. La guarigione dai disturbi della personalità può avvenire più facilmente in un’ottica olistica, che armonizzi i piani fisico, psicologico, sociale, economico e relazionale con la visione spirituale. La qualità fondamentale da sviluppare è l’equilibrio, strumento di superamento degli opposti, quindi di trascendenza. Nella Bhagavad-gita, Krishna parla dei condizionamenti provocati dalle tre influenze della natura materiale: ignoranza, passione e virtù. Le persone non vengono condizionate soltanto da tamas, che produce inerzia e paralizza la coscienza, né solo da rajas, che genera l’azione caotica e agitata ma, paradossalmente, anche da sattva; questa situazione si manifesta nell’attaccamento al senso di benessere che, se non trasceso e quindi portato al suo stato di effettiva purezza attraverso la bhakti , può anch’esso risultare un ostacolo sulla via della perfezione. Brutto e bello, attrazione (raga) e repulsione (dvesha) sono coppie di opposti (dvandva), cause di condizionamento e infine di dolore. L’obiettivo della realizzazione spirituale è quello di superare ogni coppia di opposti, per poter contemplare anche la bellezza e il benessere in maniera distaccata. Il piacere, se incanalato verso la realizzazione spirituale, non costituisce una diminuzione della disciplina (sadhana) o della rigorosa coerenza (tapas) anzi, contribuisce ad espandere la coscienza. Nel decimo capitolo della Bhagavad-gita il Divino viene descritto anche in termini di bellezze naturali; Krishna afferma, ad esempio, di essere lo splendore del sole e della luna, ed anche l’Himalaya, oppure il mare . Più che indicazioni geografico-culturali, si tratta di categorie della nostra esperienza nel mondo sensibile che si impongono per presenza e magnificenza, rappresentando dunque l’aspetto eccelso del fenomenico. Ecco allora che il Divino assume caratteristiche di onnipresenza, non in senso panteistico, quanto piuttosto come radice unica e spirituale di ogni manifestazione. Contemplare paesaggi naturali con un elevato livello di coscienza equivale ad ammirare ed apprezzare ovunque la potenza e la magnificenza di Dio, interno ed esterno ad ogni realtà oggettiva.

'Yoga: l’Uomo tra Cielo e Terra' (Lezione introduttiva del seminario) di Shriman Matsyavatara Prabhu.

La vita è un viaggio, a prescindere dal fatto che uno se ne renda conto o meno. Il viaggio di cui vi sto parlando è verso una meta deliberatamente scelta, non è un vagare, un vagabondare, bensì un procedere veloci nella direzione giusta evitando inutili distrazioni, sempre frutto dell’illusione. Affronteremo la natura più intima dell’essere umano: i vizi, le paure, l’avidità, la collera, l’amor proprio, la superbia, e con gioia, scopriremo anche grandi risorse interiori, tesori nascosti, capacità enormi che però giacciono latenti, addormentate, sconosciute al soggetto stesso. Ci occuperemo anche di incidenti sul percorso; non solo di quei rallentamenti o di quelle paralisi creati da noi stessi, ma anche di quelli causati dagli altri, dall’eredità genetica, dalla cerchia familiare, dalle abitudini del luogo e dal luogo stesso, che una così grande influenza ha sulle persone. Uno studente mi chiedeva recentemente se un panorama ameno, un ambiente di bellezze naturali, può influire sul carattere. Certo. Ma le stesse bellezze possono costituire un ostacolo all’evoluzione, così come un ambiente angusto, brutto, deprimente, può accelerare la nostra realizzazione spirituale; tutto dipende dalla nostra motivazione e da come noi utilizziamo ciò con cui veniamo a contatto. Siamo noi che forgiamo il nostro destino con le nostre mani, noi abbiamo creato il presente, più o meno consapevolmente, e lo stesso succederà per il nostro futuro. L’organizzazione del viaggio cui mi sto riferendo richiede meticolosità, pazienza, estrema attenzione, expertise, sensibilità, tutte le nostre doti migliori. Siamo umani e subiamo i limiti e le costrizioni degli umani nella misura in cui noi stessi ce li creiamo. Ma se consideriamo a fondo la nostra natura, senza lasciarci influenzare dai condizionamenti culturali caratteristici di ogni epoca, se riconosciamo la nostra essenza più intima, allora capiamo che siamo fatti per vivere e sviluppare virtù e conoscenza, che non possiamo vivere in gabbia, rimanere in acque stagnanti e che mantenerci consapevolmente in viaggio è un dovere irrimandabile. Incontreremo certamente ostacoli, asprezze, difficoltà, ma potenzialmente abbiamo anche una forza immane, coraggio, naturale predisposizione per la bellezza, per l’amore, per libertà e immortalità. Da qui il tema: "L’Uomo tra Cielo e Terra". Quali sono gli incidenti sul percorso, le disgrazie che ci fanno abbassare di quota e ci fanno sentire sempre più di terra, grevi e opachi? Quand’è che invece mettiamo le ali e diventiamo leggeri e luminosi? In quali circostanze? Quand’è che abbiamo desiderato di più di volare, che ci siamo sentiti librare in alto nel cielo luminoso e abbiamo visto lontano, qualche volta anche oltre l’orizzonte? Questo sarà l’oggetto di ricerca del Seminario che sta per iniziare, questo il nostro viaggio.Tutti i grandi viaggiatori, prima di iniziare le loro esplorazioni, hanno studiato carte, mappe, percorsi. Per accingersi a fare qualcosa di grande, per mettersi in viaggio verso la meta desiderata, occorrono basi di conoscenza e di esperienza. E’ importante aver chiari i propri punti di riferimento per orientare la rotta, occorre aver fatto le dovute valutazioni, pur senza frenare coraggio e intraprendenza, altrimenti il viaggio non comincerà mai. Si è mai sentito dire che uno abbia imparato a nuotare senza entrare nell’acqua? No. Dunque bisogna metterci in cammino e continuare a correggerci durante il tragitto. La buona riuscita del viaggio dipende in gran parte anche dalle compagnie con le quali lo condividiamo. Alcuni tra quelli che incontreremo durante il percorso ci faranno andare molto avanti, ci aiuteranno a progredire; altri invece distoglieranno la nostra attenzione o addirittura ci ostacoleranno, ci faranno cambiare rotta o tornare indietro, anche se alla fine la responsabilità rimarrà nostra e saremo noi a fare la scelta ultima e definitiva. La predisposizione soggettiva è essenziale, infatti ci accorgeremo presto di come l’esito del viaggio sia perfettamente corrispondente alla nostra attitudine interiore. In ogni impresa l’atteggiamento che si assume all’inizio è determinante, perché darà un segno verso l’alto o verso il basso al nostro agire e quindi ai risultati dell’impresa stessa. Quel che succederà dopo la partenza sarà in gran parte la risposta alla nostra predisposizione interiore. Per questo è fondamentale verificare bene la nostra motivazione e il nostro sentire prima di dare inizio a qualcosa. Se vi sentite confusi, smarriti, distratti, non agite. Prima centratevi in voi stessi, siate lucidi nel vostro proposito. Non è solo una questione di volontà, ma soprattutto di aver ben considerato e scelto la meta, secondo gli insegnamenti universali propri di tutte le tradizioni spirituali che favoriscono l’evoluzione dell’essere verso le vette più alte e luminose della coscienza. Una volta scelta la meta e la guida che ci accompagna nel viaggio, quanto più riuscirete a visualizzare le tappe intermedie, tante meno sorprese ci saranno. Il viaggio procederà ed avrà successo nella misura in cui riuscirete e trasformarvi. E’ proprio questa trasfigurazione o trasformazione della coscienza che caratterizza il viaggio ben intrapreso e compiuto. Come un atleta deve aggiungere fibra su fibra ai propri muscoli guadagnandoli dal tessuto adiposo, così il nostro viaggiatore, il ricercatore del sé, l’entronauta, colui che compie il viaggio all’interno dell’universo interiore, raggiungerà l’obiettivo nella misura in cui accrescerà la consapevolezza del proprio sé profondo di natura spirituale e ridurrà il peso condizionante del proprio ego o io storico. Lo scopo è liberarsi dall’illusione di sperimentare un reale appagamento attraverso la mera gratificazione dei sensi, le comodità materiali o altre inutili distrazioni o ostacoli al proprio progresso. Solo su questi presupposti si sarà in grado di sviluppare una visione che oltrepassa le apparenze e arriva all’essenza, che non si limita alla percezione della realtà psicofisica ma che permette di visualizzare le dimensioni più profonde e più fondamentali dell’essere e della vita. Chi vive questa trasformazione interiore, sperimenta altri gusti e tendenze, altre emozioni, aneliti e percezioni rispetto al vivere mondano, fino alla modificazione stessa della struttura psicofisica della persona, sistema nervoso incluso. Se questa trasformazione non ha luogo, possiamo anche dire che il viaggio in realtà non è iniziato, forse perchè il navigante si è dimenticato di sciogliere gli ormeggi. Rema strenuamente ma con gli ormeggi ancora ben saldi e l’alba successiva lo coglierà, affaticato ed amareggiato, allo stesso punto del giorno prima. Nella nostra metafora del viaggio gli ormeggi sono i condizionamenti del carattere, le brutte abitudini, le illusioni e i vizi della coscienza. Come abbiamo spiegato all’inizio, la vita è un viaggio comunque: da naufraghi, sbattuti qua e là dalle onde del karma, oppure un viaggio consapevole con meta deliberatamente selezionata. A noi la scelta. Krishna nella Gita spiega che le motivazioni al viaggio verso l’elevazione della coscienza sono principalmente quattro: la ricerca di sollievo dalla sofferenza, la volontà di raggiungere un obiettivo, la curiosità e la coltivazione della conoscenza. Coloro che soffrono, che sono in ansietà, che vivono sensi di colpa, idee ossessive, paure, gelosie, invidie, conflittualità, lacerazioni e conflitti intrapsichici ed interpsichici di varia natura, desiderano intraprenderlo per modificare in meglio la propria situazione e liberarsi dalla sofferenza opprimente. Ci sono poi coloro che hanno desideri personali da soddisfare, ma che si prefiggono di realizzarli secondo il Progetto di evoluzione universale, in armonia con Dio e le Sue leggi. Vi sono inoltre coloro che si interrogano sulle origini dell’universo, sulla creazione, sul mistero della nascita e della morte, che si pongono numerosi interrogativi esistenziali e che intraprendono il viaggio per trovare risposte alla loro sete di conoscenza, e infine i jnani, coloro che già sanno, e proprio perché sanno hanno piacere di compiere quel viaggio che dalla conoscenza li porterà alla trascendenza. Durante il tragitto coloro che sono più egoicamente motivati debbono innalzare e purificare la loro motivazione per evolvere e raggiungere equilibri sempre superiori altrimenti, una volta raggiunti i loro obiettivi, si troveranno a scendere loro malgrado dal vascello credendo di essere giunti a destinazione e rimanendo invece ancorati ad un livello incompiuto di evoluzione, dunque vincolati ad illusione e sofferenza. Il compimento del viaggio per intero, fino alla meta, porta la persona in quella dimensione oltre lo spazio e il tempo che armonizza bisogni psicofisici e istanze ideali; in essa scompare anche la paura più grande, quella della morte, poiché si è realizzata la natura eterna e spirituale del proprio essere e dalla terra si è giunti al cielo.

05 marzo 2009

'Entusiasmo e Paura' di Shriman Matsyavatara Prabhu.

L'entusiasmo è una delle espressioni più significative e visibili della volontà, nonché lo stato d’animo antitetico a quello generato dalle depressioni e dalle fobie. L'entusiasmo di cui parlo non consiste in uno stato euforico, frutto di acritica aderenza al mutevole mondo delle apparenze, ma si basa su strutture di realtà e dunque, con il mutare delle circostanze esteriori, non è destinato a trasformarsi nel suo opposto: la sfiducia, paralisi energetica, confusione mentale e depressione. L'alternanza di depressione ed eccitazione-agitazione sono segni di una personalità sofferente e problematica, mentre la gioia e la fiducia stabili, persistenti, durature, che si nutrono di una visione di noi stessi e della realtà che sa penetrare l'essenza della nostra natura e che si accompagnano alle virtù della determinazione e della pazienza perché la persona vede con fede e lungimiranza, sono il sintomo e il segno di una coscienza illuminata, che progredisce in un ascendente percorso di autorealizzazione. Il problema che si pone consiste dunque nel passare da un paralizzante stato di scoraggiamento da paura (potenzialmente distruttivo) ad un fiducioso stato d’entusiasmo (potenzialmente costruttivo). Secondo la Tradizione, tale trasformazione si ottiene ricercando la compagnia e la guida di persone genuinamente devote a Dio, illuminate e dedite alla pratica dell’amore divino (Bg IV, 38 e XI, 13-20), benevole verso tutte le creature e il Creato. La devozione a Dio (bhakti) agisce sulla stabilità psichica con un effetto benefico infinitamente più grande di quello apportato dalle varie forme di psicoterapia e da tutti gli psicofarmaci. La bhakti permette di ridirigere verso la Divinità tutte le emozioni, e queste confluiscono in un'unica corrente, si intensificano, si affinano, si dirigono verso idealità sempre più alte e appaganti. Il bhakta (colui che è impegnato nella pratica della bhakti) sviluppa allora progressivamente stabilità mentale, serenità, l’intima ineffabile soddisfazione di tutti i desideri e gioia profonda, esprimendo tale stato d’animo attraverso un linguaggio e un comportamento pieni di tenerezza e compassione, anche nella quotidianità.

04 marzo 2009

'Il matrimonio e la famiglia' di Shriman Matsyavatara Prabhu.

Famiglia, matrimonio, figli rappresentano un'unica realtà, costituita da elementi da considerarsi nel loro complesso come inscindibili, se non a costo di gravi errori e conseguenti significativi disagi e sofferenze. Intendiamo spiegare questa complessa realtà secondo gli Shastra o testi del pensiero psicologico e filosofico indovedico e secondo gli insegnamenti e le realizzazioni di vita dei Maestri di tale Tradizione, tenendo di conto che viviamo in un’epoca purtroppo molto inquinata da condizionamenti culturali, sociologici e psicologici. Non è facile sottrarsi alla pressione che essi esercitano, permeando ogni sfera del nostro vivere quotidiano e rafforzando a volte nostre tendenze antiche e malsane abitudini contratte a seguito di errori e di cattive impostazioni nel rapportarci a noi stessi e agli altri. Intendendo valutare alcune caratteristiche determinanti che si consiglia di ben valutare per chi desidera intraprendere la vita matrimoniale, il primo elemento fondamentale da prendere in considerazione è il grado di responsabilità della persona che si pensa come futuro coniuge; una responsabilità ovviamente da misurarsi non soltanto a parole ma soprattutto nella realtà dei fatti e nella storia della vita personale del soggetto. Il livello e la qualità della responsabilità che si è in grado di assumere e mantenere nel tempo sono essenziali per ritenersi idonei al matrimonio. Matrimonio significa prole e prole implica educazione, dunque un intenso, complesso e lungo impegno, che nella società di oggi dura come minimo 30 anni di cure assidue dedicate ai figli. Prendere decisioni impulsive, sulla spinta di passioni non sufficientemente elaborate, e indulgere nella cattiva abitudine di accettare e rifiutare – senza opportuna previa valutazione - la persona del coniuge, non è certa una mentalità che si confà a chi desidera vivere nel benessere, il che implica necessariamente "essere – bene". Il matrimonio richiede fedeltà, che non è una qualità secondaria ma fondamentale, sia nell’uomo che nella donna. La scelta dello sposo o della sposa dovrebbe essere per la vita. Certo si deve prevedere anche il caso di una donna o di un uomo che si separino dal proprio coniuge e si risposino con un'altra persona, ma ciò non dovrebbe essere un fenomeno diffuso - come invece purtroppo avviene oggi - quanto piuttosto un episodio raro, un'eccezione sulla base di motivazioni veramente serie, non certo per superficialità, instabilità di carattere, vulnerabilità o fragilità affettiva, o per una colpevole negligenza nella fase di valutazione e scelta del coniuge. Fintanto infatti che la mente non viene educata ad un'approfondita analisi e continua ad essere trasportata dagli impulsi che s'impongono alla coscienza, non farà altro che perpetrare l'errore muovendosi acriticamente da un oggetto del desiderio ad un altro e ad un altro ancora. Coloro che hanno tali tendenze e conformazioni caratteriali certo non hanno la maturità sufficiente per intraprendere una vita matrimoniale. La castità è un valore essenziale per il matrimonio, ed è un dovere sia per la moglie che per il marito, ma la castità viene ridicolizzata da coloro che credono che questa dimensione sensibile sia l’unica esistente. Tanti oggi pensano che chi crede ancora nella castità sia vittima di inibizioni o che abbia subito un lavaggio del cervello. Ma chi davvero avrà subito questo lavaggio del cervello? Chi pensa che la vita sia limitata ai bisogni del corpo e che difende il motto: "chi può se la goda", oppure chi crede in una vita dedicata allo sviluppo della persona nel suo complesso, sul piano fisico, psichico e spirituale? Chi sceglie quest'ultima via s'impegna in una disciplina che non è repressiva, che non nega la soddisfazione dei desideri primari assurgendo a castigo paranoico, ma li trasforma e li sublima fino a renderli propedeutici a tappe evolutive ulteriori. Il bisogno di affetto deve essere assolutamente soddisfatto, così come il bisogno di amare ed essere amati, ma per soddisfarli veramente occorre capire qual è la modalità migliore, più idonea e benefica. Se uno mi parlasse di una disciplina di vita che include la rinuncia all’amare e all’amore, definirei quella cosiddetta disciplina una sorta di attacco terroristico, poiché uccide l'essenza stessa della persona; essa sarebbe di fatto insostenibile, come se ci obbligassero ad una dieta che prevede la completa astensione dal cibo. Scambiare affetto è essenziale sul piano psicologico, così come amare è prerogativa irrinunciabile sul piano spirituale. Ma per riuscire davvero ad amare occorre scoprire l'autentico significato di Amore, che non può essere disgiunto dalla consapevolezza dell'esistenza di un Ordine cosmo-etico che regola la vita di tutte le creature, e per il quale vige la legge psicologica della reciprocità, per cui ogni azione che compiamo influenza la nostra coscienza e quel che facciamo agli altri ritorna inesorabilmente su di noi, nel bene e nel male, poiché l’inconscio – come un grande ed infallibile orecchio interno - registra ogni nostro movimento, fisico e mentale. Per questo le Upanishad affermano che comportandosi male si diventa male e si diventa bene se si agisce nel bene. Chi vive in modo frivolo le relazioni affettive e sentimentali danneggia prima di tutto se stesso e di conseguenza anche gli altri, poiché rovina ai suoi occhi e a quelli altrui i concetti di fedeltà, di lealtà e amore. Quando da tali relazioni nascono figli, si riversano su di loro confusione, instabilità emotiva e incapacità di amare e così il danno si estende e si moltiplica. Una famiglia dovrebbe formarsi non in maniera casuale, magari per rimediare al guaio di una gravidanza inaspettata o soltanto perché uno ha paura di rimanere solo. La famiglia dovrebbe essere una Missione che – se si sceglie di compierla – necessita di tutte le nostre migliori energie e di dedicarvi una parte consistente della nostra vita, considerando il matrimonio come strumento per migliorarsi, maturare ed evolvere affettivamente, psicologicamente e spiritualmente. Naturalmente non tutti hanno bisogno di vivere l'esperienza della famiglia per giungere alla realizzazione di se stessi: sposarsi non è un obbligo, bensì una scelta che va ben ponderata in base alle proprie esigenze interiori e caratteristiche caratteriali. Ripercorrendo la storia incontriamo vite luminose di spiritualisti che – avendo già maturato determinate comprensioni ed esperienze - hanno potuto percorrere con soddisfazione la via della rinuncia e che in quella via si sono realizzati. Viviamo in un mondo dove prevalgono comportamenti altamente scorretti, disecologici e patologici, dove si compiono oltraggi e nefandezze che purtroppo sono considerati legali, ma scuole e tradizioni nel corso della storia - che rappresentano vette di saggezza del pensiero e dell'animo umano – ci indicano orientamenti nobili da seguire per trasformare il nostro percorso nel mondo in un viaggio evolutivo verso la liberazione dai condizionamenti e lo sviluppo di Conoscenza autentica e autentico Amore. Gli insegnamenti psicologici e spirituali dei Maestri della tradizione Indo-vedica veicolano non soltanto concetti e modelli di pensiero sani, ma anche e soprattutto esempi concreti di comportamenti evolutivi, che sono come fari in grado di illuminare l'agire dell'uomo nel mondo, nella vita affettiva-sentimentale, in quella professionale e in ogni altra sfera dell'esistenza. Come purtroppo confermano innumerevoli esperienze cliniche, ci sono famiglie patologiche, psicotiche, distruttrici di ideali e valori. Un padre padrone, ad esempio, può bloccare con la sua violenza l’evoluzione di un figlio per decenni, così come un genitore perditempo, irresponsabile e neghittoso può ingenerare questa stessa mentalità negativa nella prole, producendo effetti rovinosi che potranno essere smaltiti a costo di tanti sforzi, tempo e sofferenze. Dunque è indispensabile un'accurata educazione prima di lanciarsi in un’impresa familiare. Oggi sposarsi e divorziare è diventato assai frequente, ma non per questo dovete sottovalutarne la pericolosità. In realtà ciò è il segno di una società votata al degrado. Della società moderna possiamo certamente apprezzare alcuni aspetti, ma è altresì indispensabile rilevarne le macchie, le incongruenze, i paradossi, gli abusi, come quello di considerare l'aborto un diritto civile quando assolutamente non lo è, soprattutto per il bambino che viene privato del diritto di vivere. Occorre un'educazione per potersi sposare e vivere una vita matrimoniale, e soprattutto per poterlo fare con successo, quello vero, duraturo e propedeutico all'armonizzazione e allo sviluppo della personalità, propria e altrui. Una donna dovrebbe essere accuratamente educata per diventare sposa e madre e così un uomo per diventare un marito, responsabile e capace di espletare bene il suo ruolo nel dare sostegno e guida alla moglie e ai figli. Oggi non ci sono o sono alquanto rare le scuole che insegnano a far ciò. Non c'è sufficiente cultura su questo tema e soprattutto non ci sono modelli o esempi viventi che sappiano ispirare ad un corretto modo di pensare e agire nella scelta e nella cura delle relazioni affettive, o perlomeno questi modelli sono purtroppo tremendamente rari. Come si è detto in precedenza, il matrimonio non è semplicemente la scelta di un compagno o di una compagna; è la scelta di uno sposo e di una sposa per la formazione di un nucleo familiare. Matrimonio implica procreare e procreare implica educare nella consapevolezza delle leggi psico-spirituali che permeano l'universo e la vita di ogni essere. Educare significa amare continuamente, affinché i figli possano conseguire nella loro esistenza risultati costruttivi ed evolutivi, contribuendo a loro volta nella società alla diffusione di un messaggio di Luce e di Amore. Mai nessun gesto dei genitori dovrebbe essere avulso dall’amore, dal desiderio di correggere e attrarre verso la perfezione. Il ceffone dato in stato di collera è fortemente diseducativo, tanto che chi subisce tali modalità viene danneggiato a sua volta nella capacità di essere un futuro buon educatore. I figli sono parte integrante del matrimonio; sposarsi con l'intenzione di non averne non è assolutamente consigliabile. Canakya Pandita spiegava che un matrimonio senza figli è un deserto. I figli infatti sono essenziali per rafforzare l'unione della coppia attorno ad un fine nobile che è appunto quello di dare educazione e valori alla prole, e ciò permette di portare il bisogno di amare ed essere amati su di un piano più elevato rispetto a quello dell'attrazione meramente sensuale o passionale che, se non superata e sublimata per accedere ad un sentimento più profondo, diventa causa di ansietà, contrasti e instabilità nella relazione. Una madre con un figlio stretto al petto soddisfa quasi completamente la sua affettività, in modo assai costruttivo ed evolutivo, e lo stesso vale per un padre che si prende cura dei figli, cercando di assicurare protezione, rifugio e affetto a tutta la famiglia. L'educazione da provvedere ai figli dovrebbe essere per aiutarli a difendersi nella vita dalle trappole dei tanti ingannatori e soprattutto per favorire la loro evoluzione etica e spirituale. In ogni caso la più grande educazione è quella che si dà non a parole ma con l’esempio personale. Non è necessario che i figli sappiamo teoricamente che i genitori hanno studiato insegnamenti di valore, ma li devono vedere applicati nelle loro vite. Un vero genitore non deve essere soltanto un generatore del corpo del figlio ma anche un generatore della sua coscienza: dovrebbe ispirare, educare, proteggere. Come spiega Rishabhadeva ai suoi figli: che non si diventi padre, madre o maestro spirituale se non si è in grado di liberare dalla sofferenza dell'esistenza condizionata le persone cui si deve provvedere. Non si può imporre la nostra volontà sugli altri, ma si può e si deve offrire un modello di cui essere fieri. Naturalmente la famiglia richiede anche la capacità di fare un progetto economico che sia valido e capace di assolvere a tutti i bisogni di ordine materiale, che non sono gli unici né i più importanti ma che altresì non possono essere disattesi. Se uno vive da solo, quando ha provveduto a se stesso non ha nessun obbligo nei confronti della società, ma quando una persona ha famiglia e procrea non può operare con la stessa logica, ed è importante tenere in considerazione che chi ha vissuto per tanti anni in quel modo non così facilmente è in grado di accedere ad un altro tipo di mentalità. Per capire se si veramente adatti l’uno per l’altra occorre una verifica e valutazione di anni, ovviamente non da sposati ma nell'ambito di un necessario periodo di osservazione e prova. E' fondamentale realizzare la differenza sostanziale tra complementarietà e affinità elettiva. Il coniuge non è una soltanto una spalla o un rimedio alla solitudine, e ovviamente non è una delle tante amicizie. E' una persona con la quale dovremmo intessere una vita di comunione, fondata sulla condivisione seria e profonda di valori ideali. Oggi la società premia un modo irresponsabile di costituire coppie e famiglie, ma quale società troveranno i nostri figli? Quale mondo stiamo costruendo? Viene esaltato il principio edonistico della mera gratificazione egoistica e di pari passo vengono penalizzati quello della giustizia e della vera libertà. Vengono così legalizzati abusi e oltraggi, ma quel che è legale non sempre è anche giusto. Se pensate ad una persona ritenendo che potrebbe essere il vostro coniuge, studiatela e osservatela attentamente, e soprattutto provate a vederla come il padre o la madre dei vostri figli. La vedete attiva, proattiva, responsabile, capace di impartire educazione con buoni insegnamenti e soprattutto con un buon esempio? Ritenete che con l'aiuto di questa persona possiate risolvere le crisi della vita come ad esempio difficoltà economiche o problemi di salute, o invece la considerate poco adatta, poco consapevole, tendente a sfuggire alle responsabilità piuttosto che ad affrontarle con coraggio e maturità? Siate ben consapevoli delle difficoltà che provengono da un coniuge autoritario, da un padre padrone, o da un marito o da una moglie morbosamente gelosi che vedono rivali e pericoli ovunque. È pur vero che pericoli ci sono per uno sposo o una sposa giovani, ma occorre sviluppare un certo livello di maturità che ci permetta di evitare i pericoli senza diventare paranoici. Donne e uomini che hanno vissuto con modalità etiche dubbie o con uno scarso livello di responsabilità debbono modificare tali attitudini e aspetti del carattere migliorandosi con un congruo anticipo, non certo quando la decisione del matrimonio è già stata presa. L’educazione alla formazione di una famiglia deve necessariamente includere considerazioni di questa natura, e molte altre che potremmo fare in un'analisi più accurata. La famiglia può essere un ottimo strumento per la nostra evoluzione, ma deve essere una famiglia fondata su princìpi sani, che tengano di conto delle istanze più profonde e spirituali dell'essere e dello scopo della vita umana oltre i bisogni di ordine mondano. Se poi una persona non si pone un fine evolutivo, trascendente, allora in privato può fare quello che vuole, può anche cambiare partners ogni sei mesi se tutto quello che desidera ottenere dalla vita è una soddisfazione egoica temporanea, ma ricordate che il numero dei suicidi sta aumentando a dismisura in chi coltiva questo tipo di mentalità. Sono le battaglie che abbiamo vinto per il vero bene nostro e altrui che ci danno forza, fiducia in noi stessi, profonda e duratura soddisfazione, non quelle a cui abbiamo rinunciato per egoismo o avidità. Dobbiamo tener fede a valori elevati e con tenacia e lungimiranza superare ogni difficoltà. Se invece uno cede alle debolezze proprie e altrui rinforza la malsana opinione: "non ce la posso fare... lo sapevo di non valere niente" e così - dopo essere stato un pessimo profeta – quel soggetto avvera la sua profezia disastrosa. La famiglia non è un obbligo, l'essere padri o madri non è indispensabile per evolvere; può essere infatti che una persona abbia già fatto questa esperienza nelle vite precedenti e sia giunta ad una consapevolezza che le permetta di impostare la sua vita e di crescere senza l'obbligo di assolvere a questo dovere sociale. Ma chi invece decide di farsi una famiglia dovrebbe prendersi questa responsabilità avendo bene in mente lo scopo per cui la famiglia esiste, che a dire il vero consiste proprio nell'esaurire il bisogno di famiglia. Lo scopo è infatti quello di liberarci progressivamente da dipendenze e bisogni esteriori, per sviluppare autonomia affettiva e spirituale, e perciò marito e moglie dovrebbero aiutarsi vicendevolmente affinché il loro legame si fondi sempre di più sulla gratitudine e stima reciproca, piuttosto che sulla dipendenza emotiva e psicologica. Questo non per reprimere l'amore, ma per far evolvere la nostra capacità di amare ed essere amati, estendendola progressivamente e rendendola sempre più universale. In effetti il bisogno di scambiare affetto e sentimenti appaganti non è garantito automaticamente sposando, ma sarà in proporzione a quanto saremo stati in grado di trasporlo e viverlo su di un piano sempre più consapevole ed evoluto. Una famiglia va consumata, e lo dico non in modo irrispettoso o svalutante per l'istituzione familiare in sé, ma intendendo con ciò che la sua funzione è di condurre a tappe ulteriori di maturità e realizzazione, come se fosse un vero e proprio sacrificio che porti crescenti saggezza, benessere e giovamento a tutti i membri del nucleo familiare. Pensate invece ai danni del tradimento e dell’infedeltà che riaccendono il fuoco della passione torbida e alimentano la dipendenza da nuovi partners e da fantasie che bloccano la propria ascesa etica e spirituale, e purtroppo anche quella dei propri figli. L'aspirazione a formarsi una famiglia - se si hanno le giuste motivazioni - è un desiderio nobile ed è una scelta che comporta responsabilità, così come del resto quella di percorrere una via di rinuncia: anche in questo caso occorre infatti assumersi responsabilità di coerenza, impegnandosi a maturare la capacità di dare e ricevere affettività e amore. La via della rinuncia non implica infatti una rinuncia ad amare, anzi: è una scelta che richiede imparare ad amare tutti nella consapevolezza della comune radice spirituale di ogni essere. Per concludere, gettiamo uno sguardo alla storia: prima delle ultime due o tre generazioni non c’era mai stato un momento in cui l’umanità non avesse modelli di valore cui riferirsi: l’eroe, il mistico, il gentiluomo, ecc. Adesso invece si opera per cancellare ogni riferimento eticamente nobile: impera il self-made man, l'uomo che si è fatto da solo e che poi si ritrova drogato, depresso, agitato da disistima, conflitti e insoddisfazioni e che a volte purtroppo finisce anche suicida. Chi è l’eroe della televisione? Il calciatore, la velina, il cantante che ha avuto successo, lo stilista imbottito di denaro, che ormai non può più sopravvivere senza alcool o perversioni sessuali. I giovani purtroppo vengono irretiti da questi falsi modelli, la cui vita sembra facile, ma quanta sofferenza, autocommiserazione e disperazione si nascondono dietro queste vite! L’apparenza inganna. Il vero successo è fatto di sforzi continui e seri tesi al raggiungimento di obiettivi costruttivi ed evolutivi. Chi vive con questa consapevolezza rimane attivo, produttivo e geniale anche con l'avanzare degli anni. Nella storia abbiamo casi emblematici, come quello di Goethe che scrisse o il Faust ad oltre ottant’anni o Jung che in tarda età compose la sua autobiografia "Ricordi, Sogni e Riflessioni", o anche saggi e maestri come Bhaktivedanta Svami Prabhupada che negli ultimi anni della loro vita hanno compiuto imprese meravigliose per il bene dell'umanità. Essere giovani o vecchi non dipende dalla nostra data di nascita: dipende dall’impostazione che diamo alla nostra vita, dalle priorità che scegliamo, dalla qualità delle nostre motivazioni e dalla dedizione con cui portiamo avanti gli obiettivi che ci siamo prefissi. Se si vive per sviluppare Saggezza e Amore, più passa il tempo più si ringiovanisce. Che ciascuno rifletta bene sulla natura e scopo del matrimonio e sulla scelta personale di sposarsi o meno, valutando le proprie attitudini e tendenze, perché quello che è bene per uno potrebbe essere per un altro un male o una complicazione dannosa. Entrambe le scelte, sia quella di sposarsi, sia quella di non sposarsi, sono in sé valide; sta a noi comprendere quale dovrebbe essere il nostro percorso e viverlo con coerenza.